XI CONGRESSO PROVINCIALE della FEDERAZIONE di TORINO RELAZIONE DI EZIO LOCATELLI

Care, cari tutti,

innanzitutto, un benvenuto, in apertura di questo nostro XI congresso provinciale, alle rappresentanze delle forze politiche, sociali, sindacali, ai singoli compagni che hanno raccolto il nostro invito ad essere presenti a questo incontro. Oltre ovviamente un ringraziamento alle compagne e ai compagni di Rifondazione Comunista qui presenti in qualità di delegate e delegati eletti nei congressi di Circolo che si sono tenuti tra luglio e settembre. Un congresso, il nostro, che si tiene all’indomani di importanti elezioni amministrative cui abbiamo partecipato nella realtà di Torino con una candidatura di alto profilo, un intellettuale, un uomo di sinistra di rilievo nazionale e internazionale come Angelo d’Orsi, che ringrazio per essersi speso in una campagna elettorale che è stata straordinaria e improba al tempo stesso.

Ci tornerò più avanti perché, quand’anche le elezioni siano tra i temi più caldi, più dibattuti di questi giorni, penso che non vada commesso lo sbaglio di cambiare l’ordine delle priorità, di perdere di vista le urgenze che stiamo vivendo rispetto alle quali i risultati elettorali, per quanto importanti, sono soltanto un dettaglio.

Penso alle perduranti condizioni di rischio e di vulnerabilità legate ad una pandemia che nessuno di noi avrebbe mai immaginato in termini così drammatici per la vita delle persone. Una sindemia più che una pandemia, come hanno giustamente sottolineato alcuni esperti per richiamare l’interazione che esiste tra la diffusione di determinate malattie col deterioramento delle condizioni climatiche, ambientali, sociali, dei sistemi produttivi. Esattamente ciò che i negazionisti tendono a minimizzare o a disconoscere a difesa dello status quo. Una pandemia o sindemia che dir si voglia che, al di là delle sue conseguenze devastanti in termini di sofferenze e di vite umane, ha messo a nudo le ingiustizie, le disuguaglianze di genere, le macroscopiche disfunzioni di sistema sanitari falcidiati da tagli irresponsabili, il diverso accesso ai vaccini tra paesi poveri e paesi ricchi, il diverso accesso all’istruzione, ai servizi on line. Una pandemia che messo a nudo la contraddizione stridente di centinaia di migliaia di persone che hanno perso il lavoro, che sono state impoverite a fronte di un mercato delle armi che, anche nella nostra regione, non si è mai fermato, ha continuato a generare fatturati ultramiliardari. Insomma, sarebbe sbagliato rimuovere ciò che è accaduto e che potrebbe ancora accadere, in assenza di un cambio di rotta, in forme ancora più virulente.

Un cambio di rotta più che mai necessario a salvaguardia del diritto fondamentale di un futuro vivibile come ci hanno ricordato ancora una volta i ragazzi di Fridays for Future che sono scesi in piazza anche a Torino in occasione dello sciopero globale del clima. Vero che in questo momento, sotto pressione di un’opinione pubblica allarmata, si sta dando spazio al dibattito sulla crisi climatica. Il mercato delle opinioni ribolle di questo tema. Persino Draghi mostra di essere preoccupato. Ma al di là delle pose politiche, dei blablabla denunciati da Greta, si è ben lontani dall’affrontare la questione di fondo con cui abbiamo a che fare. Quello di un modo di produzione che è diventato la macchina di distruzione più potente che sia mai apparsa sulla terra. Non era mai capitato nella storia dell’umanità che un modo di produzione si ponesse con tanta evidenza, in aggiunta all’immiserimento materiale, alla povertà, alla fame di miliardi di persone, alla destabilizzazione delle condizioni di salute come la più grave minaccia di sopravvivenza dei viventi sulla terra.

Sottolineo: non minaccia ipotetica, di là da venire. Ciò che sta accadendo è già sotto i nostri occhi. Siamo in piena corsa verso il surriscaldamento del pianeta come attestato dal ripetersi, in tempi sempre più ravvicinati, di tutta una serie di eventi estremi: temperature torride, trombe d’aria, incendi, inondazioni, scioglimento dei ghiacciai, disastri di vario genere. Disastri climatici, per dirla con le parole della “Stern Review of the Economics of Climate Change”, come “massimo esempio di fallimento del mercato che abbiamo mai visto”. Un mercato per il quale ci si è prodotti in un attacco sistematico alla sfera pubblica e di tutti gli organismi regolatori in nome di una crescita del profitto a qualsiasi costo. Il risultato è una crisi con un potenziale distruttivo enorme: centinaia di milioni di vite, già in questo momento, dipendono da ogni mezzo grado di riscaldamento che consentiamo o evitiamo. Il rapporto esplosivo dell’Ipcc (l’agenzia delle Nazioni Unite istituita nel 1998), di cui si è parlato molto negli ultimi tempi, non lascia margini di dubbio riguardo ciò che ci aspetta: in assenza di un cambio di rotta immediato, non tra cinque o dieci anni, non si potrà che andare incontro, in maniera irreversibile, ad una catastrofe ambientale tale da compromettere le stesse basi delle economie, della sussistenza, della sicurezza alimentare, della salute e della qualità della vita in tutto il mondo. In tutto il mondo significa anche qui a Torino, visto che la nostra città viene inserita tra le sei città italiane maggiormente investite dalle ondate di calore (rapporto della Fondazione Centro Euro-Mediterraneo sui cambiamenti climatici).

 

Il fattore tempo è per l’appunto il dato nuovo che cambia il nostro modo di pensare e di concepire la prospettiva. Non è molto il tempo che rimane a disposizione come attestato dallo stesso Orologio dell’Apocalisse, l’Orologio diventato indicatore universalmente riconosciuto sul rischio di una catastrofe ambientale e nucleare. Il tempo residuo a disposizione non è più misurato in ore o minuti ma in secondi: per l’esattezza cento secondi alla mezzanotte. Per usare le parole di Noam Chomky: “questa è la più grave crisi dell’umanità … stiamo portando il mondo in prossimità di un olocausto ambientale e nucleare”. Vero, continua Chomky, che “la storia è fin troppo ricca di testimonianze di guerre orribili, di torture indescrivibili, di abuso di diritti fondamentali. Ma la minaccia di distruzione della vita umana organizzata, in qualsiasi forma riconoscibile o accettabile, è una novità assoluta”. Ed ancora, sempre con le parole di Chomky, per dire delle responsabilità che abbiamo in prima persona, indipendentemente dagli anni che abbiamo: “chi è vivo oggi deciderà il destino dell’umanità; nonché il destino delle altre specie che stiamo distruggendo a un ritmo che non si vedeva da 65 milioni di anni”.

Ecco, io penso che vada superato ogni ritardo di comprensione della portata della crisi che stiamo attraversando senza per questo farsi prendere dal panico, scadere nel catastrofismo. Le teorie catastrofiste o apocalittiche utilizzano prevalentemente il passivo. Sono teorie che inducono all’impotenza, a una perdita di orizzonte futuro proprio nel momento in cui massima deve essere la consapevolezza e la volontà di infrangere tutti i precetti imposti dal liberismo che portano inevitabilmente al disastro ambientale a partire dall’idea della centralità del profitto. Questa volontà deve esprimersi innanzitutto nel far crescere una mobilitazione popolare e un insieme alternativo di proposte che siano nel senso di spingere per una ricostruzione della sfera pubblica, una inversione della tendenza delle privatizzazioni, di riconversione dell’economia ai valori d’uso, di riduzione dell’iperconsumo, di taglio delle spese militari, di riavvio della pianificazione, nazionalizzazione delle grandi imprese.

Obiettivi ambiziosi, sicuramente al di là della nostra portata, tanto più che veniamo da anni di arretramento, di estrema disgregazione politica. E tuttavia penso che sarebbe sbagliato non vedere che il neoliberismo ha iniziato, non da oggi, a vacillare visibilmente. Non sono più gli anni del capitalismo vincente, di un capitalismo spacciato come il punto più alto dell’evoluzione della civiltà umana. Gli anni in cui il capitalismo, con poche eccezioni, ha occupato tutto l’orizzonte del pensabile. Sia detto, se questo è accaduto, è anche in virtù dell’adesione della maggioranza della sinistra al modello neoliberista, dell’abiura nei confronti di tutto ciò che aveva una qualche somiglianza col mondo sconfitto, abiura compiuta a tal punto da arrivare a equiparare nazismo a comunismo. Prese di posizione vergognose che non riescono più a nascondere l’usura di una egemonia. Pensiamo soltanto all’impatto che ha avuto sull’opinione pubblica mondiale il ritiro delle truppe di occupazione dall’Afghanistan dopo aver condotto una guerra disastrosa che ha contribuito a produrre uno scenario di caos, di violenza, di diffusione del terrorismo. A proposto di questa guerra il New York Times ha parlato di un vero e proprio “fallimento epocale” che toglie credibilità ad ogni pretesa di supremazia. Scriveva quasi vent’anni fa Immanuel Wallerstein in un suo libro anticipatore, “Il declino dell’America”: “negli anni ’90 siamo stati sommersi dai discorsi sulla globalizzazione. Qui ci troviamo in un’epoca di transizione nella quale l’intero sistema mondo capitalistico … un sistema che si trova per la prima volta in una crisi sistemica … sarà trasformato in qualcosa di diverso … la battaglia mondiale su come sarà questo sistema è già iniziata”. Ed ancora: “L’esito di questa transizione è estremamente incerto. Ma nelle epoche di transizione nessuno gode del lusso di sedersi ai bordi del campo”. A me sembra questo un punto decisivo del cambio di abito mentale che dobbiamo assumere rispetto al tempo dominante, del pensiero unico. Della necessità di andare oltre il senso della sconfitta, di superare ogni forma di passività, di attendismo, ogni forma di ripiegamento su noi stessi.

Abbiamo detto della crisi climatica diventata elemento catalizzatore di un movimento di opposizione di nuova generazione, del disastro di una globalizzazione a mano armata che muta l’immagine americana e delle potenze occidentali nel mondo. Oltre a ciò, siamo in presenza di un altro elemento potente di destabilizzazione. Mi riferisco alle disuguaglianze cresciute, come mai era accaduto prima nella storia dell’umanità, colpendo innanzitutto le donne, i giovani, gli anziani. Diseguaglianze intollerabili che la politica di oggi può solo gestire con l’uso della forza, con la politica della segregazione, del filo spinato, dei nuovi muri globali, dei nuovi campi di concentramento, sorti ovunque a difesa delle aree più ricche. Con la politica della repressione e della messa fuori legge di chi non accetta le ingiustizie, come è capitato a Mimmo Lucano vittima di una condanna vergognosa che dovremo continuare a contrastare con la mobilitazione che anche a Torino abbiamo promosso nei giorni scorsi. C’è una espressione anglosassone che sintetizza molto bene quella che è stata per tutto un periodo la narrazione progressista dominante: “la crescita è un’alta marea che solleva in alto tutti i battelli”. È accaduto il contrario. Una crescita che ha creato dislivelli spaventosi di ricchezza, non più solo tra paesi ricchi e paesi del terzo mondo, facendo andare a picco migliaia di battelli e di vite umane – questo è quello che è avvenuto nel Mare Nostrum trasformato in una immensa fossa comune - ma all’interno degli stessi paesi ricchi, nelle nostre città. Torino è tra queste città che ha percentuali in continuo aumento di disoccupati, poveri, precari, emarginati sociali. Dislivelli di ricchezza che sono cresciuti a dismisura in piena pandemia come attestano i dati Oxfam. Una minuscola minoranza, 36 persone in cima alla piramide sociale, hanno beneficiato di un incremento di ricchezza per 49,7 miliardi di euro, una cifra spaventosa, nel mentre un milione di persone in più, in aggiunta ai 4,6 milioni di poveri già presenti nel nostro Paese, sono precipitate nel baratro della povertà assoluta. Altro che i soldi non ci sono.

Quello che trovo scandaloso è l’insipienza di certa politica che considera questa redistribuzione iniqua come la cosa più naturale del mondo. Penso ad una recente dichiarazione dell’ex tesoriere nazionale del Pd, mio conterraneo, che, per avere la benevolenza di Confindustria, non trova di meglio che richiamare il ruolo avuto dal proprio partito in appena due anni di governi Conte bis e Draghi nell’assegnazione di 155 miliardi di euro alle imprese, tra aiuti diretti, sgravi fiscali e misure di settore. Per non parlare della montagna di soldi del Recovery Fund destinata alle imprese. Regalie non solo scandalose ma controproducenti. Non occorre scomodare Marx secondo cui “la causa ultima di tutte le crisi effettive è pur sempre la povertà e la limitazione del consumo delle masse ….” per capire che non c’è possibilità alcuna di fuoriuscire dalla crisi senza combattere la piaga della disoccupazione, l’economia dei bassi salari, le disuguaglianze di reddito e di ricchezza che hanno raggiunto livelli insostenibili. In questi anni abbiamo assistito al tentativo di scaricare la rabbia verso il basso per porre al riparo i privilegi di chi sta in alto. Mi sembra sempre più difficile la riuscita di questo gioco al massacro, del capro espiatorio costruito sulle separazioni, sulle distanze sociali. C’è tutta una umanità che precipita sempre più in una situazione di precarietà, di insicurezza lavorativa, sociale, esistenziale. A livelli tali che si fa largo, sotto l’apparente immobilità di superficie, la possibilità di forme inedite di lotta, di riscatto, com’è avvenuto, per esempio, in occasione della straordinaria lotta delle lavoratrici e dei lavoratori della Gkn di Campi Bisenzio diventata, col suo slogan “insorgiamo”, un punto di riferimento di tante lotte frammentate e della possibilità di tornare a vincere. Il che mi fa dire che dobbiamo guardare oltre la siepe. Non è vero che siamo in un momento di stasi. Siamo in un momento di possibilità in cui anche solo una scintilla può incendiare la prateria.

Dico queste cose sapendo bene del consenso largo di cui gode oggi Draghi con l’immagine che gli è stata costruita-di salvatore della patria. Una immagine fasulla. Il punto di svolta di questo governo, rispetto al disastro sociale combinato con le politiche di austerità, è sì, l’assunzione di politiche espansive, ma di politiche che sono a senso unico, in funzione dei meccanismi di funzionamento dell’economia di mercato. Meccanismi da innovare, viene detto, da qui il ricorso a iosa a termini come rivoluzione digitale, rivoluzione tecnologica, transizione ecologica. Fumisterie. La sostanza è che non cambia la logica di un sistema che, in maniera stringente, è chiamato a rispondere ai requisiti della produttività e del profitto. Lo schema del Recovery Fund è per l’appunto questo. Per il resto siamo in assoluta continuità con quello che c’era prima: libertà di licenziamento, sblocco degli sfratti, liberalizzazione dei servizi, privatizzazioni, grandi opere. Scelte politiche evocative della vera natura di un governo affidato direttamente a un banchiere che, Luciano Gallino non avrebbe esitato, per stare a un suo celebre saggio, a definire una sorta di colpo di stato. Non sembri esagerato il ricorso a questa definizione. I colpi di stato, spiegava Gallino, non sono solo quelli virulenti ma quelli imposti ai governi, alla politica, dal mondo della finanza, dai poteri oligarchici, sono quelli imposti tramite uno svuotamento degli istituti della democrazia costituzionale. Questo è ciò che è avvenuto, col beneplacito di una classe politica che si è fatta sistema, che non fornisce più da tempo, drammaticamente, alcuna rappresentanza per milioni di persone. Pensiamo alle recenti elezioni. I calcoli su chi ha vinto e perso sono stati fatti entro il campo ristretto di chi è andato a votare. Ma vorrà dire pure qualche cosa il fatto che un elettore su due non va più a votare. Non vanno più a votare per il venir meno di linee di demarcazione, di distinzione tra destra e sinistra tanto più in presenza dell’attuale quadro consociativo di governo. Compito nostro è di ripristinare, sui contenuti, queste linee di demarcazione, di lavorare all’unità di tutti quelli che a sinistra non si riconoscono in questo in un governo che ha fatto le sue scelte di parte, come si è visto in occasione dell’assemblea nazionale di Confindustria, di un governo che, dopo le elemosine dei mesi scorsi, è già passato celermente alle stangate. Ultima in ordine di tempo l’aumento inconsulto delle bollette di gas, luce e altri servizi essenziali. Proprio per questo in questi mesi abbiamo appoggiato tutta una serie di mobilitazioni sindacali, di lotta sociale. Lo stesso faremo dopodomani in occasione dello sciopero che il sindacalismo di base ha indetto, finalmente in modo unitario, contro le politiche antisociali in corso d’opera.

Cito un passaggio del discorso di Draghi agli industriali: “la ripresa della economia passa attraverso l’apertura dei mercati”. Si tratta di un passaggio che esprime molto bene l’ottusità di un modo di pensare e di agire. Un modo che non fa i conti con l’irrazionalità di un sistema in cui il surplus enorme di ricchezza è nelle mani di pochi, che non fa i conti con il significato profondo della crisi che stiamo attraversando. A prima vista i dati sbandierati del rimbalzo economico, che c’è stato dopo la fase del lockdown, sembrano dare l’idea di una ripresa della marcia espansiva. Di fatto questi dati, per nulla sorprendenti, non dicono nulla sul declino, sulla crisi strutturale che è in corso da anni. Per usare le parole di autorevoli economisti, in campo nazionale e internazionale, una crisi che è nei termini di una “stagnazione senza fine” come “fatto di nuova normalità”. Di una crisi aggravata da un sistema finanziario cresciuto a dismisura, svincolato da qualsiasi controllo, che si è comportato come un’associazione a delinquere a danno dei risparmi, delle condizioni di lavoro, della qualità della vita, dell’ambiente. Lo scandalo portato allo scoperto in questi giorni dall’inchiesta Pandora Papers dice proprio questo, di un sistema fraudolento a cui è stata data libertà assoluta: libertà di speculazione finanziaria, di evasione fiscale, di riciclaggio criminale, di straripanti accumulazioni private, di rapina degli strati più deboli. Risultato: una crisi connotata da stagnazione produttiva, accumulazione finanziaria, disuguaglianze sociali oltre che da un collasso ambientale che ha raggiunto un punto limite, che andrà sempre più fuori controllo., destinata a ingenerare una dinamica di scontro, di contrapposizione di interessi sociali divergenti sui temi dell’occupazione, reddito, lavoro, salute, ambiente, disuguaglianze. In questa situazione penso che si debba dare al nostro partito una identità più marcatamente conflittuale, oppositiva, di classe, stando per l’appunto sul terreno delle condizioni materiali di vita e di lavoro.

Questa è l’impostazione, l’ordine di priorità che abbiamo cercato di avere in tutti questi anni, certo con molti limiti ma, lasciatemi dire, anni che sono stati anche di intenso lavoro politico. Sono anni in cui sui temi della salute, dell’occupazione, dei diritti sociali e civili, dei diritti dei migranti, degli anziani, della lotta contro quella grande opera figlia dell’espansionismo del capitale che è il Tav in Valsusa, siamo stati promotori o partecipi di moltissime iniziative, abbiamo costruito una trama di relazioni sociali. Sono anni in cui abbiamo messo in piedi associazioni, attività culturali, mutualistiche, sportelli sociali, Gap, Case del Popolo - La Poderosa innanzitutto - che hanno contribuito a costruire un contesto di partecipazione e di utilità del nostro lavoro. Sono gli anni in cui abbiamo completamente risanato il debito pregresso della Federazione provinciale risalente a più di dieci anni fa, cosa che ci mette nella condizione, anche su questo piano, di arrivare al Congresso con un risultato in attivo. Permettetemi, per questo risultato, un ringraziamento particolare alla tesoriera provinciale per l’assiduità e la perizia del lavoro svolto, unitamente al ringraziamento delle compagne e dei compagni che si sono adoprati nel corso degli anni per lo svolgimento delle varie attività. Sono gli anni in cui abbiamo ridato visibilità e proiezione esterna al nostro partito che è diventato o, se volete è rimasto, con tutte le difficoltà del momento, il principale soggetto politico organizzato di sinistra a livello metropolitano. Certo, anche se abbiamo retto bene l’onda d’urto dell’emergenza sanitaria, continuando a svolgere un’azione di denuncia, di controinformazione, sperimentando nuovi canali di comunicazione, continuando a svolgere attività mutualistiche nei limiti delle possibilità, è pur vero che tutta una serie di attività. hanno risentito della difficoltà di svolgere un lavoro di prossimità in piena emergenza sanitaria. Ora si tratta di rimetterci appieno in movimento, di ridare per intero fisicità a questa presenza, riorganizzando le nostre forze. Non è tanto o solo un problema organizzativistico quanto un lavoro di riconversione di energie, di priorità, di cultura organizzativa, di ricambio generazionale. Una rifondazione della rifondazione.

Dobbiamo fare tutto questo non solo in termini di una riaffermazione del ruolo nostro. Il problema è anche e soprattutto di forza politica, di capacità di articolare una proposta tenendo conto della scala in cui si muovono le forze avversarie. Qui c’è tutto un vuoto da riempire. Possiamo farlo andando oltre la nostra nuda esistenza, producendo legami, stando in connessione con tutto ciò che costituisce terreno di ricomposizione sociale, di azioni comuni, di soggettivazione politica, in controtendenza con i processi di sradicamento e dissoluzione venuti avanti in questi anni. Stando in rete con tutte le istanze di cambiamento improntate ai valori di solidarietà, di giustizia, di liberazione in modo da fungere, non a parole, ma nei fatti concreti, a elemento di costruzione di un movimento sociale e politico per l’alternativa. Detto in altre parole l’alternativa non semplicemente come problema di posizionamento, di presa di distanza, ma come processo di costruzione di quello che ancora non c’è. Ecco perché siamo contro ogni forma di settarismo, di autoreferenzialità.

Questo è lo spirito con cui abbiamo affrontato la stessa scadenza delle amministrative ben sapendo di un terreno ostico per i meccanismi di una legge elettorale che sono nel senso di ridurre drasticamente lo spazio per il voto di rappresentanza a favore del cosiddetto voto utile che utile non è. L’abbiamo affrontata come meglio si poteva fare, privilegiando per quanto ci riguarda il piano dell’unità a quello dell’identità, coalizzando tutte le forze di sinistra disponibili. Lo abbiamo fatto attorno a una candidatura a sindaco di una figura di grande prestigio come quella di Angelo d’Orsi, che ancora una volta ringraziamo per essersi speso con grande dedizione e competenza. La sua è stata una candidatura che ha raccolto apprezzamenti a non finire. Così come tanti apprezzamenti sono stati espressi all’unitarietà delle forze sociali e politiche che abbiamo ostinatamente perseguito. Anche se non entriamo in Consiglio Comunale (entriamo invece in diversi Consigli Circoscrizionali), pur ottenendo un risultato significativo, rimane valida la strada intrapresa riguardo a qualsiasi progetto di cambiamento. Una strada impervia che va perseguita – questo proponiamo ad Angelo, a tutte le forze, ai singoli con cui ci siamo trovati in questa campagna - contrastando le diverse espressioni di settarismo, di autoreferenzialità che fanno unicamente il gioco dell’avversario. Una strada che va perseguita sapendo che ancor prima della rappresentanza istituzionale esiste un problema di rappresentanza sociale. Oltre il 50% dell’elettorato torinese, un dato macroscopico, non è andato a votare per rabbia, sfiducia nei confronti di un quadro politico che non offre alternative. E quando queste alternative sono messe in campo, come abbiamo cercato di fare, entra in azione il sistema oliato della disinformazione mainstream. In ogni caso da qui bisogna ripartire facendo tesoro della campagna fatta, di una campagna straordinaria che abbiamo condotto guardando non solo ai risultati immediati ma alla prospettiva. Facendo altresì mente locale dei tanti limiti che la sinistra è chiamata a superare. Per quanto riguarda la questione del ballottaggio, contrariamente al titolo di un quotidiano di ieri, non credo all’efficacia in sé della teoria del male minore che rischia, se protratta all’infinito, di portare a mali peggiori. Le destre xenofobe e fascistoidi, il cui pericolo non sottovalutiamo, si combattono dando risposte di libertà, giustizia, dignità, di speranza che sono esattamente le risposte mancanti da parte delle forze del governo nazionale e regionale. Non credo che da parte nostra ci siano le condizioni per una indicazione di voto al ballottaggio, anche in coerenza con quanto deciso a livello di forze di coalizione. Il che non significa il disconoscimento di chi pensa che, al ballottaggio, si debba andare a votare con l’idea di contrastare la destra . Detto ciò, il problema primo sta nella costruzione di quello che ancora non c’è, di un pensiero, di una forza e di una politica in antiliberista.

Scriveva Gramsci: “uno degli idoli più comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è naturale che esista”. Dobbiamo buttare a gambe all’aria tutti quegli idoli e discorsi che parlano solo di crisi, ma non della possibilità di liberarsene. Contrariamente a quanto ci volevano far credere non siamo arrivati “alla fine della storia”. Non è così. La storia è ancora tutta quanta da scrivere. Dovremo continuare a farlo con le nostre forze, stando in rete con altre forze.

Come molti di voi sanno la mia esperienza come segretario a Torino, dopo quasi dieci anni, anni straordinari in cui ho vissuto il partito, questa nostra comunità, come una sorta di famiglia allargata, giunge a conclusione. Anni in cui ho cercato di dare tutto quello che mi era possibile. Il mio pensiero riconoscente è a tutti voi, per quello che abbiamo fatto insieme, così come alle compagne e ai compagni che non ci sono più ma che continuano ad essere dentro di noi. Il mio pensiero caro è alle compagne e ai compagni di altre formazioni o realtà con cui abbiamo interloquito, collaborato in tutti questi anni sviluppando rapporti di stima e di amicizia. In ogni caso la mia persona rimane a disposizione di questo nostro partito e di questa nostra federazione che ha tutte le condizioni per rinnovarsi, per guardare avanti, per intraprendere un nuovo inizio.

Concludo con le parole del Che di cui oggi ricorre il 54esimo anniversario dell’assassinio per ordine della Cia. Sono le parole che ci hanno sempre guidato e ancora ci guideranno nel nostro fare politica: Siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia, commessa contro chiunque, in qualsiasi parte del mondo. E’ la qualità più bella di un buon rivoluzionario”. Buon congresso.

 Torino, 9 ottobre 2021

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