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Relazione al IX congresso provinciale di Torino del segretario uscente Ezio Locatelli
Care compagne, cari compagni
innanzitutto ringrazio quanti hanno raccolto l’invito a partecipare all’apertura di questo 9° congresso provinciale del Partito della Rifondazione Comunista. Ringrazio altresì le compagne e i compagni che sono qui presenti in qualità di delegate/i o di invitate/e a conclusione della tornata di congressi che si sono svolti a livello territoriale. Vi è stata un’alta partecipazione di iscritte/i a questi Congressi, segno tangibile di una vitalità politica che dobbiamo valorizzare al meglio in un momento politico di grandi asperità e di mutamenti.
Parliamo di mutamenti profondi che stanno travolgendo e ridefinendo tutto il quadro politico e sociale entro cui abbiamo agito, per tutta una fase, il nostro impegno di comuniste e comunisti che lottano per un cambiamento di società. Non solo mutamenti in senso generale ma mutamenti che riguardano in specifico la nostra città oltreché la nostra provincia. Penso al passaggio ancora in corso – un passaggio traumatico, socialmente e politicamente disgregante di rapporti tradizionali – da città fabbrica, operaia, a città della rendita, delle grandi opere, dei grandi interessi finanziari.
Ecco, io penso che noi abbiamo la necessità di rispondere a queste trasformazioni in atto fuoriuscendo da una discussione largamente segnata da logiche e categorie che sono di un altra fase, di un altro periodo storico.Una discussione che si concentra sul versante dei mancati risultati elettorali, ma che fatica a vedere tutta una serie di trasformazioni, innanzitutto dal punto di vista sociale e dei rapporti di classe, che delineano un trapasso, una cesura di quadro che ci colloca fuori dall’intero dopoguerra italiano. Bisogna convincersi che siamo al di là di questo quadro e che da qui, lucidamente, bisogna ricominciare a pensare e ad agire.
Solo così possiamo ricreare la possibilità di una alternativa positiva, dando una risposta in avanti a tante nostre insufficienze, per un percorso di ricostruzione/rifondazione di una forza comunista e della sinistra nel suo insieme.
Quando parliamo della crisi – crisi di un modello di sviluppo – bisogna essere consapevoli della sfida che abbiamo davanti. Non stiamo parlando della solita crisi ciclica, superata la quale tutto potrà risplendere come prima. Oggi come oggi siamo arrivati ad un punto di svolta senza precedenti, ad un vero e proprio passaggio d’epoca in cui la crisi si manifesta come crisi sistemica su scala globale, non solo come crisi di accumulazione dell’economia produttiva o crisi finanziaria ma come crisi sociale, crisi energetica, crisi ecologica, crisi alimentare, crisi climatica, tante crisi, l’una connessa all’altra, che deflagrano, che attizzano il fuoco di innumerevoli sottoproblematiche pronte ad esplodere.
Noi abbiamo l’obbligo di una lettura radicale di una crisi che è sistemica. Questa crisi rende sempre più evidente l’insostenibilità del modello di sviluppo capitalistico che ha dominato fino al giorno d’oggi. Insostenibilità a cui non ha saputo rispondere quella strategia, messa in campo dal capitale, dopo il crollo del Muro di Berlino e successivamente dell’Unione Sovietica che ha preso il nome di “neoliberismo”.
Oggi si stenta a ricordare l’ottimismo, l’euforia con cui le nazioni ricche del Nord accolsero quel crollo. Nel suo celebratissimo saggio “La fine della storia” Francis Fukuyama sanciva “l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano”. Chiarissimo l’assunto di fondo: le economie di mercato, capitalistiche grazie anche alla forza della globalizzazione che genera immensi flussi di capitale in uscita e in espansione dalle nazioni industrializzate, sono le uniche in grado di assicurare un mondo di pace e progresso. Una vera e propria baggianata.
Per dare una traduzione di questa visione faccio ricorso a due citazioni che dicono, più di tante parole, della smisurata arroganza dei signori del capitalismo globalizzato. L’una è di Percy Barnevik, potentissimo uomo d’affari a capo di una delle più importanti società transcontinentali: “Definirei la globalizzazione come la libertà, per il mio gruppo, di investire dove vuole, per il tempo che vuole, per produrre ciò che vuole, approvvigionandosi e vendendo dove vuole e dovendo sottostare al minimo delle restrizioni possibili in materia di diritti del lavoro e di accordi sindacali”. Se possibile, ancora più brutale l’esternazione di William Barret, investitore finanziario, la terza persona più ricca del mondo: “C’è una lotta di classe, è vero, ma è la mia classe, la classe ricca che sta facendo la guerra, e stiamo vincendo”.
Parole brutali ed esplicite. Ma è proprio questa brutalità che spiega molto bene perché si sia andati incontro nel giro di pochi anni, non alla “fine della storia” nei termini teorizzati da Fukuyama, ma a uno stato di disordine e di squilibrio economico e sociale senza precedenti col rischio, ne dobbiamo essere consapevoli, di uno smantellamento dell’intero edificio della società civilizzata. Per dare una misura di questo stato di squilibrio basti dire che i 225 patrimoni privati più grandi del mondo, sono pari al reddito annuale del 47% della popolazione mondiale più povera del pianeta. Con quali conseguenze? Ce lo ricorda Jean Ziegler quando dice di una situazione di crisi e disuguaglianze che “distrugge ogni anno più uomini, donne e bambini di quanto non abbia fatto in sei anni la Seconda guerra mondiale”. “Per i popoli del terzo mondo – aggiunge Ziegler – la terza guerra mondiale è già in corso”. Peraltro non si deve dire solo dei paesi del terzo mondo. Anche nei paesi del Mediterraneo, penso alla Grecia in primo luogo, la crisi sta drammaticamente colpendo e aggravando le disuguaglianze con una violenza simile a una guerra.
Ora, più volte mi è capitato di imbattermi in un’obiezione: anche nel passato il capitalismo si è contraddistinto per sfruttamento e disuguaglianze. Vero, ma ciò che vorrei sottolineare è che il grosso nodo della crisi attuale, rispetto ad altri cicli storici, è quello di un capitalismo che ha perso definitivamente forza propulsiva. Si è passati da una economia dello sviluppo, della crescita capace di suscitare una idea di benessere, di prosperità, di un futuro migliore ad una economia che per sopravvivere, per arrestare la caduta del saggio di profitto – “tentativo disperato di trascinare il cielo in terra” come l’ha definito Piero Bevilacqua – è entrata in una fase di distruttività radicale di occupazione, di tutele sociali, di lavoro, di risorse naturali, in una fase di finanziarizzazione selvaggia dell’economia, di privatizzazioni e liberalizzazioni a tutto campo. Ed ancora si è entrati appieno inuna economia basata sulla deregolamentazione, sulla flessibilità, su salari variabili (verso il basso) che è all’origine di una fase di crescente insicurezza e precarizzazione esistenziale, ciò che Zygmunt Bauman considera come “la più infausta e dolorosa angustia contemporanea”.
Questo il quadro generale per dire di una vera e propriacontrorivoluzione che, bisogna aver ben chiaro, più che perseguire l’obiettivo chimera della crescita, punta ad un trasferimento draconiano di reddito, di ricchezza, di potere dal basso verso l’alto, in una parola a realizzare una gigantesca spoliazione sociale, di classe a tutto vantaggio del capitale. Soltanto un dato: nei paesi UE la quota dei redditi da lavoro sul Pil è scesa in trent’anni mediamente di circa 10 punti, dal 67 per cento nel 1975 al 57 per cento nel 2005. Negli ultimi anni è andata ancora peggio.
Ci ricordiamo tutti delle parole di Sergio Marchionne sbattute in faccia agli operai Fiat, alla Fiom, ai sindacati dissenzienti: “comincia l’epoca dopo Cristo”. Questo per dire che la crisi in atto, ancor più nel nostro Paese, viene utilizzata per attuare la chiusura definitiva del caso italiano per come l’abbiamo conosciuto dal dopoguerra al giorno d’oggi: un modello incardinato su alcuni principi di segno progressivo, tra questi il lavoro emancipato, la lotta all’ingiustizia, i diritti, la dignità del lavoro.
Il nostro è diventato il Paese dove si registra l’attacco più brutale ai diritti e alle condizioni di lavoro, è diventato il Paese più privatizzato non solo in economia ma sul terreno dello Stato sociale e dei beni comuni, il nostro è diventato il Paese più ingiusto e diseguale con 10 milioni di poveri e con il 65% delle famiglie che dichiara di non farcela più a tirare avanti. Dati agghiaccianti che non hanno impedito a Monti, Berlusconi, Bersani di trasformare in norma costituzionale il pareggio di bilancio, norma che mette fuori legge le politiche keynesiane di spesa pubblica.
Io penso che in molti, a cominciare da quanti siedono in Parlamento, non si rendano conto di che cosa significhi tagliare per 50 miliardi di euro, ogni anno per i prossimi 25 anni, spesa pubblica, redditi da lavoro, pensioni, scuola, sanità, trasporti, comuni, ecc. Questi tagli ci porteranno alla recessione più nera, ai licenziamenti di massa, alla depressione e paradossalmente all’aumento ulteriore del debito pubblico. Tagli di queste dimensioni – utilizzo le parole di Luciano Gallino – “significano oggi una sola cosa: la condanna alla miseria”.
Dobbiamo dirlo con grande chiarezza, c’è un altro modo di affrontare la situazione. Rigore, ma non quello voluto dai governi che si sono succeduti in questi anni. I tagli vanno imposti sì, ma alla corruzione, all’evasione fiscale, alle rendite finanziarie. agli armamenti, agli F 35, alle grandi opere come il Tav in Valsusa, ai grandi eventi. Come Rifondazione Comunista abbiamo promosso una raccolta firme su un piano di lavoro che ha già raccolto l’assenso di autorevoli esponenti sindacali, di movimento, dell’associazionismo che può e deve diventare occasione per l’apertura di una discussione pubblica su questi punti, di una rimessa in discussione di un intero modello di sviluppo (tanto più che in Europa l’eccesso di capacità produttiva per alcuni beni tradizionali e maturi è nell’ordine del 79% della capacità installata) per un modello più legato a bisogni sociali, alla conoscenza, all’ambiente, alle energie rinnovabili. Un modello in cui tornino ad esserci due parole chiave: programmazione e giustizia sociale.
Ora, veniamo alla realtà con cui ci confrontiamo tutti i giorni, al crescente malessere sociale derivante dalle mancate risposte. Già ora la scena sociale, per restare al nostro Paese o anche a Torino, ribolle di proteste, conflitti, vertenze: gli insegnanti della scuola, gli studenti, i precari della ricerca, gli operai delle fabbriche in crisi, la Fiom o i sindacati di base, gli extracomunitari schiavizzati, le popolazioni in rivolta contro le grandi opere e i territori inquinati, i centri sociali, le lotte contro gli sfratti. Ultima protesta in ordine di tempo: i cinque operai da sei giorni in cima ad una gru, in sciopero della fame, per avere il salario che non viene pagato da 11 mesi. A questi operai incontrati nei giorni scorsi che ci hanno detto “le imprese fanno soldi fallendo e non pagando gli operai” va la piena solidarietà di Rifondazione Comunista.
Il punto problematico che vorrei richiamare è un altro. Attiene ai processi di distruzione degli spazi pubblici, con ciò allo scioglimento di molti vincoli di socialità e di reciprocità. L’effetto di questi processi è stato di produrre separazione, isolamento, di produrre un disagio sociale e anche un dissenso politico sempre più privatizzato, disperso.
In una situazione di questo tipo, frammentata socialmente e politicamente, la questione politica centrale diventa la capacità o meno delle vittime sociali del sistema di ricostruire uno spazio collettivamente condiviso, di riappropriarsi dell’idea che un altro mondo è possibile.
C’è un contributo di lavoro che possiamo e dobbiamo dare con pensiero positivo, con la convinzione che non viviamo un tempo piatto, come ci vorrebbero far credere, dove tutto va e viene senza cambiare nulla. È un lavoro di unificazione della moltitudine di voci e di bisogni, di individuazione di terreni comuni di risposta, di progetto alternativo di società, tutto ciò stando nei conflitti come luoghi di elaborazione collettiva. Affrontiamo questo lavoro smettendola di pensare e di agire da sconfitti.
Ulrich BecK utilizza parole forti per dire quello che sta succedendo nel raggio di una crisi che durerà a lungo: “questa crisi sta distruggendo il credo di un sistema” (il sistema del libero mercato). Credo che noi siamo in questo passaggio, ambivalente per quanto riguarda i possibili sbocchi, ma per l’appunto in ragione di questa ambivalenza anche un passaggio che può riaprire spazi e possibilità politiche a condizione di stare nel gorgo degli avvenimenti, a condizione di tornare a lavorare sui fondamenti della società civile.
In questo c’è bisogno, molto bisogno di tornare a Karl Marx quando diceva che la società civile è il vero “teatro della storia” e che guardando alla società i rivoluzionari devono essere sempre capaci di “sentire l’erba crescere”.
Al di là delle ricadute propriamente materiali e sociali la crisi che stiamo attraversando coincide con una fase di involuzione politica, di espropriazione della democrazia, di rottura e di rovesciamento di tutta la storia costituzionale del nostro Paese.
Questa rottura e la ridefinizione in atto del rapporto tra capitale e politica mi sembra ben sintetizzata in due interventi autorevoli. L’uno è un articolo di Guido Rossi di qualche tempo fa sul “Sole 24ore”. Nel contesto dell’attuale globalizzazione, viene detto, “la sovranità degli Stati nazione ha abdicato e lo Stato di diritto si è trasformato in uno Stato dell’economia”. Ancora più netto Luciano Gallino che parla di vero e proprio “colpo di stato” da parte di ristrette oligarchie finanziarie, di governi compiacenti “il cui obiettivo di fondo appare chiaramente essere quello di privatizzare i sistemi europei di protezione sociale al fine di dirottare verso imprese e banche il loro colossale guadagno”.
Cambiamenti di portata enorme. Molti di noi sono cresciuti con l’idea della centralità delle istituzioni democratiche, rappresentative. Un’idea che oggi non trova più corrispondenza in una situazione in cui i parametri della condizione umana sono decisi in ambiti a-democratici, autoritari situati fuori dalla portata delle istituzioni e dello stato nazionale, in una situazione in cui le regole di governo sono ridefinite in base alla regola della non esistenza di alternative.
Prima ho fatto cenno al nuovo trattato europeo del 2012, meglio conosciuto come fiscal compact, un vero e proprio mostro giuridico che fa obbligo agli stati membri di incorporare nelle rispettive Costituzioni il vincolo di politiche di austerità volte a smantellare servizi pubblici e programmi sociali. Come ha spiegato Angela Merkel questo è un trattato “vincolante ed eterno” che varrà per qualsiasi maggioranza di governo senza possibilità alcuna di fare retromarcia.
Quali le risposte? Sono in molti a dire che la crescita di un movimento conflittuale e di disobbedienza su scala europea è l’unico antidoto al processo di spoliazione democratica. Condivido con una precisazione che ci chiama tutte/i direttamente in causa. Questa idea di movimento deve ravvicinarsi alla concretezza dei territori, deve organizzarsi in lotte concrete a livello locale contro la privatizzazione e la svendita dei beni comuni, dell’acqua, dei trasporti, del patrimonio culturale. Avendo a riferimento un programma comune.
Oggi penso più che mai giusto dire che, il nostro programma, o almeno parti significative di esso, sia la Costituzione, anzi il ripristino della Costituzione nata dalla lotta di Liberazione: pace contro guerra, diritto e dignità del lavoro contro sfruttamento, giustizia contro povertà, uguaglianza contro ineguaglianza, diritti universali contro ogni forma di discriminazione.
Queste linee di scontro vanno fatte rivivere di contro a una “politica vuota” ormai del tutto priva di riferimenti ad opzioni e interessi diversi, di una politica che riduce le distanze politiche tra destra e sinistra proprio nel momento in cui aumentano le distanze sociali derivanti da una iniqua distribuzione di reddito e di potere. Da qui la drammatica caduta di senso che si manifesta nella frattura tra istituzioni e società. Caduta di senso che proprio in questi giorni risente pesantemente di vicende come quelle che hanno coinvolto la Regione Piemonte. Una legislatura a guida leghista che è partita con la vicenda delle firme false, che ha via via collezionato scandali vari, l’ultimo dei quali riguardante l’accusa di peculato nell’utilizzo dei fondi regionali. Una vera e propria vergogna. A chi tenta di alzare polveroni, di fare di ogni erba un fascio in maniera qualunquistica noi diciamo una cosa semplice: siamo orgogliosi di stare fuori da questa masnada. Prima arriva la conclusione di questa legislatura meglio è!
In queste ore l’attenzione politica è tutta rivolta agli scenari connessi all’estromissione di Berlusconi dalle aule parlamentari. A proposito di questa estromissione Asor Rosa ha scritto recentemente che “qualcosa abbiamo rimediato. la spaccatura della tradizionalmente infrangibile e inattaccabile falange berlusconiana” e la messa in difficoltà di un capobanda il quale “ha contribuito prepotentemente a degradare le istituzioni parlamentari” nel corso di due decenni. Pongo questi interrogativi: ma davvero si pensa che basti una sentenza per ripristinare la legalità repubblicana? Davvero si pensa che la grande anormalità della fase che viviamo sia identificabile con i due decenni di potere di Berlusconi?
Sia detto con grande chiarezza, la caduta di Berlusconi e la rottura del centrodestra che si sta consumando in queste settimane, in questi giorni è un fatto positivo. Chiude un periodo caratterizzato dall’aperta violazione di tutti i concetti portanti di cittadinanza, di uguaglianza, di diritto, da un uso strettamente personale e a fini privati delle istituzioni, del governo, dello Stato su cui rimane ferma la nostra radicalità di giudizio.
Il punto però su cui vorrei soffermarmi è un altro. Riguarda il limite culturale, politico di un antiberlusconismo, giocato per lo più nei termini di una personalizzazione dello scontro politico, senza nulla dire sul gigantesco processo di distruzione sociale, dei diritti del lavoro che ha messo a soqquadro la costituzione materiale del nostro Paese. Ed ancora il limite di un antiberlusconismo senza nulla dire sulla ragione vera dello scandalo: l’appoggio, la copertura politica e morale che a Berlusconi e ai suoi governi sono stati dati, finché è servito, da parte di vasti settori del mondo industriale, della stampa, dei mass media, degli ambienti intellettuali, di gran parte della Chiesa.
Questi settori – col pieno avvallo di un Presidente della Repubblica che ha stravolto il ruolo costituzionale del Capo dello Stato – sono gli stessi che con le loro pressanti richieste di sottoporsi all’ordine dettato dai mercati finanziari sono riusciti nell’intento di evitare che la caduta di Berlusconi producesse il benché minimo spostamento a sinistra del quadro politico del Paese.
Il bisogno di nuovi interpreti della rivoluzione conservatrice che da un quarto di secolo viene trasformando l’Italia è stato presto soddisfatto, prima con il governo Monti poi col governo Letta-Alfano. Possiamo dirlo? Due governi di larghe intese che hanno messo in campo più di quanto il centrodestra non avesse realizzato negli anni precedenti: l’ennesimo colpo di maglio alle pensioni, la cancellazione dell’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, drastiche riduzioni di reddito, micidiali tagli allo stato sociale, privatizzazioni, per non parlare del progetto di modifica della Costituzione diventato più pervasivo e più devastante di quando c’era Berlusconi.
Al dunque penso che il vero problema in Italia sia la mancanza di una strategia alternativa al liberismo dominante. La convinzione funesta che si è fatta via via largo nelle classi dirigenti, una volta di sinistra, è che bisognasse conquistare i settori moderati con politiche moderate. A scanso di equivoci lascio la parola a Cuperlo, uno dei protagonisti delle primarie del Pd, per dire del rischio che abbiamo davanti: “Renzi non vuole aprire una fase nuova ma riprodurre il ventennio che vogliamo lasciarci alle spalle”. In sostanza un’accusa, a quello che sarà il nuovo segretario Pd, di berlusconismo, che dice del compimento di una traiettoria politica, quella di un partito non partito sempre più contenitore per la raccolta politica indifferenziata, di un partito che non si discosta minimamente, anzi che è in perfetta continuità con le politiche classiste di austerità.
La crisi della politica nasce da qui, da questa mancanza di risposte. Oggi il 50% dell’elettorato si colloca fuori e contro il sistema politico. Il rifiuto del sistema politico è stata l’intuizione di Grillo il quale però ha sostituito il conflitto di classe, il conflitto tra destra e sinistra, l’avversione all’ingiustizia sociale con un programma confusionista dove coesistono proposte liberiste e antiliberiste, centraliste e federaliste, libertarie e forcaiole. Per dirla con Wu Ming un programma passepartout tipico di un “movimento diversivo” che al di là delle apparenze “ha fatto da tappo e stabilizzato il sistema”. In tutto ciò, sempre per Wu Ming “il M5s amministra la mancanza in Italia di movimenti radicali. C’è uno spazio vuoto che il M5s occupa per mantenerlo vuoto”.
Condivido totalmente. Proprio per questo penso che sia del tutto sbagliata un’adesione o alleanza col centrosinistra di governo com’è stato nella scelta di Sel in occasione delle ultime elezioni politiche, scelta che è stata anteposta alla costruzione di un fronte alternativo della sinistra e dei movimenti.
Così come penso che non sia più fattibile, ne abbiamo pagato un caro prezzo, ricomporre la sinistra che sta fuori dal centrosinistra con operazioni di mero assemblaggio politico, segnate dal politicismo e dal verticismo com’è stato per Rivoluzione Civile.
Lavoriamo nella direzione della costruzione dal basso di un fronte unitario, plurale di una sinistra che si ponga in alternativa agli schieramenti di centrodestra e di centrosinistra. Un impegno che non può e non deve mettere in discussione l’esistenza nostra come forza politica così come noi non mettiamo in discussione quella di altri. Di questo abbiamo bisogno, di una proposta chiara, finalmente alternativa per uscire dalla palude in una fase di gravissima crisi economica e occupazionale che spinge verso una radicalizzazione politica e sociale.
In questo Congresso siamo chiamati a tracciare un bilancio del lavoro svolto e a definire alcune linee di rilancio politico. Lo faccio molto volentieri dicendo subito che rispetto al cumulo di problemi e difficoltà di partenza – venivamo da una cocente sconfitta alle elezioni amministrative e da una situazione di stallo politico – siamo riusciti a determinare una fase positiva di ripresa e di riorganizzazione del nostro partito.
I fatti parlano chiaro: in questi due anni, insieme al lavoro di riorganizzazione abbiamo ricostruito una iniziativa e una presenza attiva in più ambiti di intervento – in primis sui temi del lavoro, della lotta contro il Tav, della lotta contro le privatizzazioni – come fatto non semplicemente volontaristico ma nel senso di una rimessa in moto del partito. Abbiamo ricostruito elementi di maggiore visibilità politica sia tramite un più puntuale rapporto con gli organi di informazione sia tramite la costruzione di una newsletter che oggi conta quasi 4 mila iscritti. Siamo passati in un solo anno da due a sei feste di Liberazione tra cui va annoverato il ritorno della festa provinciale di Rifondazione Comunista a Torino. Ed ancora abbiamo portato a compimento il risanamento economico della Federazione, gravata da una situazione debitoria pregressa, non come fatto semplicemente amministrativo, contabile, ma come fatto politico di riconsiderazione delle modalità di autofinanziamento. Per dire delle potenzialità espresse dalla nostra federazione basti ricordare che in occasione dei banchetti referendari su pensioni e articolo 18 abbiamo raccolto un numero di firme che è stato il più alto rispetto al numero di firme raccolte nelle altre federazioni provinciali.
Una cosa vorrei dire con molta chiarezza. Tutto questo lavoro, tutti questi risultati non sarebbero stati possibili senza il concorso di impegno, di lavoro, di disponibilità di tante/i compagne/i che hanno scelto di non stare alla finestra, che hanno scelto di spendersi in prima persona, di mettere a disposizione – in base alle proprie possibilità – il proprio tempo, le proprie risorse, le proprie energie. Lavoro e apporto volontario. Compagne/i che hanno dato dimostrazione di una cosa molto semplice e cioè che il cambiamento vive se la parola è operante. A queste/i compagne/i va un grande, grande ringraziamento.
Io penso molto semplicemente che questo Congresso, nel pieno rispetto dei suoi esiti politici, deve sancire la continuità di questo lavoro per il rilancio del partito, fuori da qualsiasi ossificazione o cristallizzazione correntizia, di un partito che deve essere animato dall’ambizione di tornare ad essere riferimento e fattore di sviluppo del movimento di opposizione. Questa l’aspettativa e la richiesta della generalità dei nostri iscritte/i e dei nostri Circoli.
Io penso ad un lavoro che va affrontato con molta determinazione evitando facilonerie che ogni tanto leggo in qualche articolo del tipo “la sinistra ha davanti a sé praterie sconfinate da solcare che rappresentano una opportunità epocale”.
Oltre che confrontarci con una crisi economica, politica penso che oggi ci troviamo di fronte ad una crisi di produzione di soggettività. Il discorso è generale, ma sicuramente Torino rappresenta un caso paradigmatico per il fatto di essere passati con molto anticipo, rispetto ad altre realtà, da un processo di soggettivazione della sinistra che aveva come sfondo una fase di espansione economica, dei diritti sociali, del lavoro ad un processo di distruzione di occupazione, di scadimento sociale. Non c’è solo la Fiat in dismissione. C’è una sfilza di indicatori negativi – uno tra tutti la povertà che investe il 12% della popolazione – che dicono di un capovolgimento di situazione. Da una fase che consentiva di pensare in termini di inclusione si è passati a una fase di esclusione non solo dal punto di vista sociale ma esclusione di quelle istanze politiche, sindacali più legate alla storia della sinistra e del movimento operaio. Di esclusione di interi territori. Questo è quello che sta accadendo in Valsusa – ecco perché questa lotta è esemplare e deve avere tutto il nostro sostegno – dove si stanno sperimentando forme di militarizzazione e repressione che potrebbero valere per il tutto il Paese.
Secondo elemento di discontinuità: la difficoltà, in misura sempre maggiore di coniugare il rapporto masse-politica, sul piano della rappresentanza, della delega istituzionale non solo in ragione di una sconfitta, di una dispersione sociale ma, come abbiamo già detto, di uno svuotamento del processo democratico: chiavi decisionali in materia di politiche economiche, industriali, finanziarie, delle politiche del lavoro sottratte in larga parte a qualsiasi possibilità di intervento democratico.
Ecco, io penso che, rispetto a questi dati di novità, noi abbiamo sofferto grandemente una condizione di spiazzamento: la politica vissuta come potere, come delega istituzionale, oppure la politica nei termini di mera denuncia, propaganda, visibilità mediatica percepita oggi sempre più come politica vuota.
Puntualizzo, per non essere equivocato, che non c’è da parte mia alcuna sottovalutazione dell’importanza della sfera politica, dell’azione aggregante o disgregante che ha e continua ad avere il sistema della rappresentanza. Il punto in discussione non è questo. Semplicemente penso che negli anni che ci aspettano di miseria, di violenza, di scontro sociale, di accentuazione dei fenomeni di repressione – tutti aspetti già ampiamente presenti, più che altrove, nella realtà torinese – per una forza di cambiamento non è più possibile vivere la politica in termini tradizionali, in un rapporto di mera rappresentanza, tanto più in un sistema in cui – utilizzo le parole di Luciano Gallino – appare “definitivamente consumato il divorzio tra democrazia e popolo”.
Per queste ragioni penso che il tema della rimessa in moto di un processo di soggettivazione della sinistra anticapitalista, comunista, alternativa debba essere affrontato pensando alla politica in altro modo. Intanto non stando semplicemente dentro l’idea pessimistica di un cambiamento segnato della crisi, dal declino, dal ripiegamento non vedendo che, in questa stessa crisi, emerge (se non proprio “le praterie sconfinate”) una seconda direzione di cambiamento che è nel senso, per parlare ancora di una provincia come la nostra squassata dalle politiche liberiste, di una molteplicità incredibile di lotte, di manifestazioni di protesta, di conflitti dal basso contro licenziamenti, sfratti, privatizzazioni, grandi opere, il Tav in Valsusa, tutte situazioni che possono rappresentare una potenzialità positiva di iniziativa, di aggregazione, di ricostruzione di spazi pubblici di democrazia, di confronto.
È evidente che tutto ciò comporta una modifica in radice del nostro modo di vivere l’impegno politico, che deve tornare ad avere come centralità la costruzione del conflitto (convinti come siamo della concezione marxiana che attiene al primato delle classi sulla politica). Insisto col dire che non si tratta affatto di contrapporre il momento politico al momento sociale. Il problema è un altro, di inversione metodologica e politica, di tornare a far vivere il politico nel sociale con una radicalità di contenuti che sia di risposta alla radicalità della crisi, del disagio, della protesta che sta salendo in tutto il Paese.
Per fare questo, ciò attiene ad un progetto di cambiamento, non ci serve più – perché non regge più – una organizzazione di partito che vive in forma omologa, di riflesso a un sistema in crisi, il modello burocratico rappresentativo con le risorse che questo garantisce in termini di finanziamento pubblico, di visibilità mediatica. Rispetto a questo sistema credo vada fatta valere una diversità pensando ad una diversa strumentazione e a un nuovo agire politico, più centrato – parlo per titoli – su forme di autorganizzazione, di autofinanziamento, di autoproduzione di informazione, forme che devono trovare nelle spinte reali della società l’alimento e le risorse per strutturarsi. Infine credo che non basti la forza delle idee. Dobbiamo trovare il modo di dare risposte al bisogno di solidarietà e di difesa dei più deboli, il tema delle pratiche sociali. Qui il più è ancora da fare. Però lasciatemi dire, alla luce anche di una mia esperienza politica oltreché di un lavoro che vedo in alcuni Circoli nostri, noi possiamo ridare vitalità a tante nostre sedi facendole diventare luoghi di riferimento e di aggregazione: associazioni di migranti, scuole di italiano per migranti, comitati antisfratto, brigate di solidarietà, sportelli sociali, gruppi di acquisto popolare, muovendo dalla convinzione che oggi il processo di riorganizzazione di un partito comunista, di classe è anche su questo piano, in funzione di una maggiore capacità di produrre intervento sociale, di parlare ai soggetti sociali colpiti dalla crisi. Penso che questa sia la sfida, il salto di qualità da compiere nel prossimo futuro.
Concludo col dire che non pochi a sinistra, dopo anni di sconfitte e arretramenti, si chiedono se la strada da noi tenacemente perseguita è ancora concreta o se non sia il caso di rinunciarvi. Io penso che la nostra strada è concreta, anzi l’unica concreta. Concreta non solo in ragione del fatto che viviamo in una delle società più paradossali che la storia umana abbia mai edificato nel suo lungo cammino. Il paradosso di una ricchezza straripante che dilaga dappertutto e di una condanna alla marginalità degli uomini e delle donne che la producono. Concreta, ancor più, in ragione della possibilità di una forte ripresa di un movimento di opposizione e di cambiamento.
Come dicono gli indiani d’America la notte può essere lunga, molto lunga. Ma dopo la notte viene il giorno. Dobbiamo aguzzare lo sguardo per individuare da dove spunta la luce. “Se la luce, l’ombra, le epoche si susseguono – ci dicono Benasayag e Del Rey autori di “Elogio del conflitto” – non si tratta di desiderare o fantasticare un altro tempo o un altro luogo ma di creare, lottare, pensare, resistere” in una parola di vivere. Questa la nostra idea di comunismo che abbiamo imparato da Antonio Gramsci (“noi siamo fabbri di noi stessi”), idea non astratta, non palingenetica ma che si fa nella quotidianità, coscienza e azione operosa di libertà, di emancipazione, di liberazione. Comunismo non come fine dalla storia ma come fine della preistoria ed inizio della vera storia.
Come Rifondazione Comunista, in questi anni abbiamo rappresentato un importante fattore propulsivo di partecipazione, di costruzione di movimento, di battaglie politiche. Certo, abbiamo commesso anche degli errori che non dobbiamo esitare a valutare criticamente. Ma un errore non abbiamo commesso: quello di rinunciare ad essere comuniste/i che stanno dalla parte dei lavoratori, della povera gente per un’idea di umanità più libera, più egualitaria, più democratica, più solidale.
Questo nostro impegno deve essere anche un impegno di trasformazione di noi stessi. Come diceva il Che: “se non è per cambiare la persona, la rivoluzione non mi interessa” per dire che non ci può essere cultura del doppio binario dove la politica è disgiunta da una testimonianza di vita, di coerenza, di più alti valori morali, una diversità che deve tornare a contraddistinguere le comuniste e i comunisti.
Grazie compagne e compagni per questi due anni intensi, pieni, belli passati insieme. Qualche volta anche tristi per la scomparsa di compagne/i cari che ci hanno lasciato dopo aver fatto la loro parte. Anche per loro siamo chiamati a fare un buon congresso, a guardare avanti, di nuovo a scrivere insieme il nostro futuro.
Torino, 30 novembre 2013
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