X Congresso Provinciale Rifondazione Comunista. Relazione del segretario Ezio Locatelli

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Care compagne, cari compagni,

questo decimo congresso provinciale del Partito della Rifondazione Comunista si tiene in un momento di profondi cambiamenti che fino a qualche tempo fa sembravano fuori portata. Due segnali, su tutti, che dicono dell’inizio di una possibile inversione di tendenza, del superamento della fase di rassegnazione. Primo segnale. La sconfitta del disegno renziano, in quella che è stata definita la madre di tutte le battaglie, di andare allo stravolgimento della Costituzione col proposito di dare una risposta stabilizzante alla crisi in atto. Una sconfitta resa possibile grazie ad una straordinaria partecipazione politica, cui noi stessi abbiamo contribuito, e ancor più dall’incidenza della condizione sociale nell’espressione del voto.

C’è da registrare altresì, per paura di una seconda batosta referendaria, la retromarcia del governo in materia di norme che sono il simbolo della precarietà e della deregolamentazione del lavoro – voucher e appalti – così come chiesto nella raccolta firme della Cgil. Secondo segnale di sommovimenti in corso: le grandi manifestazioni promosse dalle donne in tutte le maggiori città del mondo, e anche qui a Torino. Per usare le parole di Angela Devis manifestazioni che sono “l’espressione di una volontà di unirsi nella lotta di resistenza alle discriminazioni, al razzismo e allo sfruttamento capitalista”. Ecco, nel ringraziare le compagne e i compagni qui presenti in qualità di invitate/i, di delegate/i, proponiamo una riflessione a partire da questi fatti muovendo dall’idea che siamo a un punto di svolta e di rottura rispetto alla storia recente. Il chè non significa ignorare aspetti contrastanti che derivano dall’estrema debolezza della sinistra, dall’ampio spazio lasciato a una destra pronta a cavalcare la disperazione dei penultimi contro gli ultimi.

Al giorno d’oggi, anche se parliamo di storia recente, si stenta ad avere memoria del trionfalismo con cui, poco meno di trent’anni fa il crollo dei Paesi a socialismo reale fu accolto dalle nazioni ricche del Nord del mondo. Sia detto, Paesi e sistemi autoritari che avevano perduto l’originaria impronta socialista. Ciò detto, nel senso comune dominante, quel crollo fu interpretato come la testimonianza inoppugnabile del tramonto definitivo di un progetto di società altra fondata sull’uguaglianza, sull’idea di emancipazione e liberazione umana. Come ha scritto Fredic Jameson la sconfitta è stata così completa che è diventato più facile immaginare la fine del mondo che la fine del capitalismo. Credo che questo sia stato uno dei maggiori punti di difficoltà che abbiamo vissuto in questi decenni in specie per quanto riguarda una generazione di giovani costretta a vivere in una sorta di presente permanente, in cui l’unica prospettiva possibile, per usare le parole di Fancis Fukuyama in “La fine della storia”, era “l’universalizzazione della democrazia liberale occidentale come forma finale del governo umano”. L’unica forma in grado di promuovere la crescita, di garantire la prosperità, la democrazia, la pace. Un assunto che è stato fatto proprio da gran parte degli ambienti di sinistra. Come ha annotato Luciano Gallino, senza l’apporto di dosi massicce di stupidità politica da parte di questi ambienti le teorie economiche neoliberali non avrebbero potuto affermarsi nella misura sconsiderata che è sotto gli occhi di tutti. Basti ricordare, per fare un esempio, la repentina giravolta, una delle tante di quel tempo, di Massimo D’Alema, dirigente ex comunista che più di altri ha impersonato la mutazione di un ceto politico, quando disse: “Io sono liberale”. Una dichiarazione che scandiva a chiare lettere un passaggio di campo e annunciava quella che sarebbe stata la grande ritirata della sinistra sul terreno della lotta, del conflitto operaio e popolare.

Sembra passato un secolo se si guarda al punto di crisi storica in cui siamo giunti. Di una crisi, per dirla ancora con Luciano Gallino, che con tutta probabilità è giunta a un punto di non ritorno, che segna l’uscita da una fase espansiva, di sviluppo economico e sociale, alle cui radici vi è la recessione dell’economia capitalistica, in America e in Europa. Un’economia che per arrestare la caduta dei tassi di resa del capitale riduce le persone a pura funzione dell’impresa. Per citare due casi recenti e ravvicinati: il caso clamoroso del licenziamento dell’operaio sottoposto al trapianto del fegato, fortunatamente rientrato per la mobilitazione dei compagni di lavoro, oppure quello dei licenziamenti e delle denunce degli operai della Safim rei di avere fatto attività sindacale contro lo sfruttamento intensivo dell’azienda. Casi che sono figli di questa logica perversa fatta di bassi salari, di licenziamenti di massa, di demolizione di pilastri importanti dello Stato Sociale. Non solo spoliazione sociale e del lavoro. Alla crisi si risponde anche col saccheggio irresponsabile dei sistemi che sostengono la vita. Uno per tutti, i cambiamenti climatici che secondo gli esperti rappresentano “la principale minaccia globale alla salute del ventunesimo secolo”.

Quanto la situazione sia grave è dato anche dall’inaudita espansione del capitale fittizio, l’idea cioè di sopperire alla stagnazione del sistema produttivo favorendolo sviluppo e la deregolamentazione senza limiti di attività finanziarie, di produzione di denaro fittizio, di attività totalmente separate dall’economia reale, dalla produzione di beni e servizi. Un sistema fraudolento e per molti aspetti finanche criminale che ci sta trascinando da una crisi all’altra con l’unico risultato di una concentrazione della ricchezza e del potere a livelli mai visti. Che tipo di società può mai essere quella in cui, secondo il rapporto Oxfam: otto uomini, da soli, possiedono la stessa ricchezza di 3,6 miliardi di persone al mondo? Una siffatta società è una delle più paradossali che la storia umana abbia mai conosciuto: una ricchezza straripante nelle mani di pochi e, come altra faccia della medaglia, una devastazione dell’esistenza per un’immensa quantità di persone fatta di diffusione della povertà, sradicamento di massa, nuove forme di discriminazione e schiavitù, distruzione dei processi democratici, costruzione di muri di separazione, repressione, violenza, uso generalizzato della forza da parte dei paesi occidentali. Tutto ciò avviene non più solo nelle periferie arretrate ma nei centri avanzati, nel cuore dell’Europa stessa, sempre più divisa dalle ineguaglianze, dalla xenofobia, dai nazionalismi contro cui domani saremo in piazza a Roma. Dobbiamo prestare molta attenzione all’operazione di depistaggio che sta venendo avanti. La politica dei confini fortificati, dei muri, dei fili spinati, dei respingimenti – una politica scellerata destinata a mietere migliaia di vite umane – vorrebbe far credere che l’origine della crisi sia l’esplosione dell’immigrazione, non delle disuguaglianze, non delle misure di austerità che tolgono reddito, servizi sociali, occupazione, sicurezza nel lavoro, dignità a milioni di persone, le stesse misure che sono state brutalmente imposte alla Grecia impegnata a resistere nell’impossibilità, sia detto, di colmare da sola uno squilibrio di forze. Quella perseguita è la logica spietata di una guerra di classe, dei ricchi contro i poveri che, dobbiamo essere avvertiti, non esclude – aveva ragione Primo Levi – il rischio di una forma aggiornata di fascismo. Come non ricordare la sortita di qualche anno fa degli economisti di JP Morgan: “Perché il neoliberismo possa sopravvivere, la democrazia deve dissolversi”. Per inciso, sia detto, una guerra che non porta da nessuna parte, alla lunga insostenibile per la stessa sopravvivenza del sistema capitalistico, che avrebbe bisogno non già di poveri ma di consumatori/lavoratori dotati di potere d’acquisto.

Ora al punto in cui siamo, è sempre più evidente che contrariamente alle attese di una terra promessa siamo di fronte a un sistema che è messo in discussione nella sua prosecuzione, nella sua praticabilità su scala globale. È esattamente questo scenario che mette tutti di fronte a una sfida alta, la necessità improrogabile di andare oltre il mercato, il lavoro servile, il saccheggio delle risorse, le ingiustizie sociali, la guerra permanente, la necessità di un’alternativa di società che sia nutrita, sostanziata da un pensiero della rivoluzione. Uso volutamente questo termine convinto come sono che le degenerazioni, i fallimenti, i crolli del passato non sono scaturiti dal fatto che furono tentate cose impossibili ma, al contrario, dalla rinuncia a tentare l’impossibile. Cosa che noi non abbiamo fatto, diventando in questi anni di sconfitta, del dominio interiorizzato, del ridimensionamento delle aspettative la faccia marginale, eretica della politica moderna. Oggi, col venir meno del credo in un sistema, torniamo a vivere un momento di possibilità.Tornano in mente le parole di Pietro Ingrao di qualche anno fa: “In ogni modo il cielo di piombo dell’ultimo decennio si sa rompendo. Partorirà nuove luci, spalancherà nuovi sentieri che adesso non sappiamo del tutto intravedere”.

Dico queste cose senza fare in alcun modo professione di ottimismo ingenuo. Per dire dell’ambivalenza del momento è utile rifarsi a un articolo di Nancy Fraser, femminista americana, scritto all’indomani dell’elezione di Trump: “Questa elezione rappresenta una delle serie di drammatiche rivolte politiche che insieme segnalano un crollo dell’egemonia neoliberista. Queste rivolte comprendono tra le altre il voto per la Brexit nel Regno Unito, il rifiuto delle riforme di Renzi in Italia, la campagna di Bernie Sanders per la nomination del Partito democratico negli Stati Uniti e il sostegno crescente per il Fronte Nazionale in Francia. Anche se differiscono per ideologia e obiettivi, questi ammutinamenti elettorali condividono un bersaglio comune: sono tutti rifiuti della globalizzazione delle multinazionali, del neoliberismo e delle istituzioni politiche che li hanno promossi”. Inutile dirlo, le destre non possono offrire alcuna soluzione alla crisi. Detto ciò, la questione che pongo, sempre con le parole di Fraser, è un’altra: “Quello che abbiamo di fronte è un interregno, una situazione aperta e instabile in cui i cuori e le menti sono in palio”. In questo interregno, per usare le parole di Samir Amin, “tutto è possibile, il meglio e il peggio. I giochi sono aperti. Le lotte politiche e sociali, con i loro successi e insuccessi, determineranno quello che sarà il futuro prossimo”.

Questo, a me sembra, il cuore della questione che ci sta davanti: l’urgenza di riportare al centro della vita politica il tema del conflitto, delle pratiche sociali critiche, della costruzione di un movimento antagonista come terreno prioritario rispetto a quello elettorale che pure è un terreno importante. Di lavorare per l’apertura di una contesa sociale che rovesci la crisi sulle sue cause e su chi la produce. Di lavorare, in particolare, a una ripresa di soggettività sul terreno del lavoro che, più di altri, ha subito un’aggressione violenta. Insieme alla riduzione dei diritti, a forme di precarizzazione e sfruttamento senza precedenti, il lavoro è stato letteralmente cancellato nella sua esistenza. Ecco, penso che noi dobbiamo ripartire da queste questioni, sociali, del lavoro, dei senza casa, delle periferie, raccogliendo l’avversione alle molte forme d’ingiustizia sociale. Diversamente il rischio è di lasciare tutto in mano agli imprenditori del rancore e della paura visti come i difensori dei ceti sociali in difficoltà.

Il che non significa, in alcun modo, avvalorare l’ormai logora e perdente separazione tra sociale e politico. Perché se è vero che i conflitti sono il motore dinamico di qualsiasi cambiamento è altrettanto vero che i conflitti di per sé non sono sufficienti, ancor più tenuto conto delle difficoltà derivanti dalla frammentazione del lavoro e della società civile. Per questo l’uscita dall’impotenza, oltre che una politica di società, pone la questione della costruzione di una politica di alternativa, della costruzione di una cultura e di un’organizzazione che sappia far vivere dentro di sé una lettura di classe della società, l’antitesi tra destra e sinistra.

Questa questione, drammaticamente sul tappeto, noi intendiamo affrontarla a partire dal rafforzamento di Rifondazione Comunista. Per troppo tempo ci siamo sentiti ripetere che non aveva più senso l’esistenza di un partito comunista. Al contrario, per noi, questo è un punto irrinunciabile non per un fatto di ostinazione, di mera volontà, tantomeno per nostalgia ma per dignità di un modo di abitare il mondo contemporaneo, l’indisponibilità a essere cittadine/i coatti in un mondo attraversato da ingiustizie, sopraffazioni, sfruttamento e guerre, da pulsioni di autodistruzione. Diceva Antonio Gramsci: “Uno degli idoli più comuni è quello di credere che tutto ciò che esiste è naturale esista”. Ed ancora: è la nostra indifferenza o la nostra rassegnazione a rendere fatale l’ordine delle cose. Ecco, noi non intendiamo immolarci sull’altare di questo idolo, non intendiamo rinunciare a una nuova e più alta forma di società e di convivenza umana, a un futuro più giusto e solidale. Quella cui tendiamo è una società in cui tutte/i siano ugualmente liberi e possano godere di una felicità più grande e più autentica di quella attualmente poco disponibile. Una società che metta le persone al primo posto.

Detto ciò bisogna anche evitare di fare discorsi che si divaricano tra la radicalità della prospettiva e i compiti che attengono ad un processo di ricostruzione democratica. Questo processo, qui e ora, passa attraverso un lavoro indispensabile di unione di forze. Io credo che non sia ancora sufficientemente chiaro: se oggi il capitalismo sopravvive alla sua sconfitta culturale è certamente grazie alla potenza della sua organizzazione, alla sua forza materiale ma grazie anche alla dispersione delle forze antagoniste, di forze che sono state ridotte a frammenti. Una dispersione, come dicevo all’inizio, che lascia campo libero a forze populiste e di destra. La domanda è d’obbligo: quanto possiamo resistere ancora in questo quadro di rapporti impari? Non è tempo di combattere questa dissolvenza di forze che la crisi libera? Non stiamo parlando d’improvvisazioni organizzative, di auto scioglimenti. Stiamo parlando di un’organizzazione di coagulo, di collegamento su una chiara linea antiliberista e di attuazione della Costituzione nata dalla lotta di Liberazione: lavoro contro sfruttamento, eguaglianza contro disuguaglianza, pace contro guerra, democrazia e antifascismo contro le nuove forme del comando oligarchico. Basta con i discorsi a vuoto. Per essere tale una sinistra della trasformazione sociale deve avere la potenza di fare concorrenza aperta al capitale, deve avere la forza di trasformare la contestazione dell’esistente in un progetto di cambiamento. Ecco perché al di là di difendere il nostro diritto a esistere dobbiamo anche saper agire in una dimensione generale del cambiamento.

Queste scelte d’indirizzo politico vanno perseguite a partire da una realtà, quella di Torino, che è uno specchio di altissima drammaticità della crisi italiana. Per troppo tempo si è data una rappresentazione immaginifica di Torino come di una grande città che è riuscita a sottrarsi alla crisi, una città all’avanguardia in tutti i campi: industria, finanza, ricerca, formazione, università, cultura e chi più ne ha più ne metta. Senza negare l’importanza di alcuni ambiti economici o culturali, ormai più nessuno può far finta di non vedere il degrado di una città letteralmente “sprofondata” – per usare un termine utilizzato dai ricercatori – quanto a condizioni sociali, occupazionali, ambientali, abitative. Un peggioramento che in gran parte è coinciso con la fase di uscita da un ciclo di espansione economica e sociale che aveva nella Fiat il proprio fulcro produttivo. Ma insieme a quest’uscita ciò che si è dimostrato del tutto fallimentare è il pensare che fosse una garanzia di ripresa e di competitività ridurre i salari e i diritti dei lavoratori, smembrare e decentrare interi comparti produttivi. È il cosiddetto modello Marchionne del “dopo Cristo” che ha distrutto la peculiarità industriale e occupazionale di una città senza mettere in campo un’alternativa credibile. Anzi. A Torino, dove Fassino e il Pd si sono identificati appieno con le politiche liberiste portate avanti in campo nazionale, una politica fatta di privatizzazioni, di taglio alla spesa sociale, di svendita del patrimonio pubblico, di grandi opere ha contribuito senz’altro a peggiorare la situazione di crisi.

Questa situazione, detto a chiare lettere, non è per nulla messa in discussione dalla nuova amministrazione comunale M5S. Come annotato autorevolmente dal Corriere della Sera, tempo fa, più che un’alternativa quella di Chiara Appendino è “un’alternanza tra due segmenti di classe dirigente”, senza contrapposizioni nette di modello di sviluppo. In effetti, se si guarda al programma di governo locale, le proposte avanzate per lo più sono da economia aziendale, indistinguibili da qualsiasi programma di centrodestra e centrosinistra. Come ha notato ancora Lidia Mattioli, presidente dell’Unione Industriali, “nulla è stato bloccato”. Il riferimento è alla linea di Alta Velocità Torino-Lione, agli impegni per la Città della Salute, alla grande distribuzione, alla priorità per le misure volte ad attrarre investimenti d’impresa. Per non parlare di quella che il Comitato acqua pubblica ha definito una “truffa ai danni dei cittadini”: l’utilizzo delle risorse della Smat per operazioni finanziarie che esulano dalle finalità societarie. Di fatto, per tornare al programma di governo locale, non c’è alcuna proposta a garanzia di alcuni diritti fondamentali come il diritto al lavoro, alla casa, ai mezzi di sussistenza, nessun piano per la sicurezza sociale.

Torino ha vissuto in questi anni una gigantesca spoliazione industriale e sociale che si è tradotta in un aumento della disoccupazione (la disoccupazione giovanile è al 49,9%), della precarietà (i posti fissi tra il 2008 e il 2014 sono dimezzati), in una riduzione del reddito medio e dei consumi negli ultimi quattro anni rispettivamente del 15,7% e del 17,9%, in un raddoppio del numero dei poveri dal 2017 a oggi. Un peggioramento degli indicatori sociali che ha ridotto drasticamente l’accesso ai diritti di cittadinanza. Si può pensare che quest’accesso sia garantito semplicemente tramite il web – la nuova fenomenologia della partecipazione fatta di opinionismo disseminato, pulviscolare, indeterminato sul piano dei valori- come vorrebbe far credere il M5S? Neanche per sogno! Una compagine amministrativa con l’ambizione di incidere sugli equilibri sociali dovrebbe assumere come priorità l’adozione di un piano per il lavoro e la sicurezza sociale, l’adozione di misure di equità sociale. Dovrebbe stimolare una domanda di “beni comuni” legati alla riqualificazione degli spazi urbani, ai bisogni sociali, alla conoscenza, all’ambiente, alle energie rinnovabili, al diritto alla mobilità come altrettanti campi di nuova occupazione qualitativa per una diversa idea di sviluppo e di città. Dovrebbe muovere da un’idea di giustizia redistributiva tramite la leva fiscale, l’accessibilità ai servizi pubblici, l’esigibilità dei diritti sociali e tutti quegli interventi che funzionano da “salario indiretto”. Di tutto questo non c’è nulla. Prevalgono un approccio generico, l’idea d interventi residuali, l’idea vecchia degli incentivi alle aziende come volano di una ripresa sociale. Non uno straccio di proposta che metta in discussione la crescita delle disuguaglianze sociali. Di sicuro, com’è stato in tutti questi anni, continua a non esserci la rappresentanza del mondo del lavoro, così come quello delle classi sociali meno abbienti, delle fasce sociali più deboli. Ecco come sinistra, come comunisti dobbiamo tornare a essere parte attiva nelle battaglie per il diritto e la dignità del lavoro, il diritto alla casa, alla salute, nelle lotte alle disuguaglianze, per il diritto alla cittadinanza sociale di tutte e di tutti. Dobbiamo chiedere a voce alta l’attuazione del principio “i diritti prima del pareggio di bilancio” come da mozione presentata da Torino in Comune – La Sinistra. Dopo il periodo di sublimazione di Chiara Appendino oggi è sempre più chiaro: l’alternativa è tutta quanta da costruire. Per questo riteniamo che l’esperienza di Torino in Comune – La Sinistra, così come altre esperienze unitarie in sede locale, non vada accantonata come qualcuno, anche a sinistra, in un rigurgito autoreferenziale, ha sostenuto, ma considerata come il punto di avvio di un percorso di lavoro e di raccolta di energie politiche, di ricostruzione di una sinistra che torni a fare realmente la sinistra offrendo un’alternativa di programma sociale e d’impegno politico alla città.

In tutto questo Rifondazione Comunista deve essere consapevole del proprio ruolo e della propria responsabilità come prima forza organizzata a sinistra, ben sapendo dei problemi che ci stanno di fronte. Per anni la sinistra, in specie quella torinese, ha vissuto della città fabbrica, del lavoro come elementi capaci di produrre identità collettive, cultura di classe in modo implicito, automatico. Le cose oggi stanno diversamente. In presenza di una disarticolazione del lavoro, di processi di frantumazione sociale, di una società messa in crisi dai meccanismi di inclusione-esclusione dell’economia, c’è una cultura della solidarietà e della resistenza che va ricostruita. Come farlo? Stando nelle lotte come terreno costitutivo della coscienza collettiva, dando risposte concrete al bisogno di solidarietà e di difesa dei più deboli. Questo è quello che abbiamo cercato di fare in questi anni.

A tal proposito penso che a distanza di tre anni dall’ultimo Congresso sia utile, seppure sommariamente, trarre un bilancio politico. In quel Congresso ponevamo la necessità di “cambiare il modello di organizzazione del partito, non più un partito che vive in forma omologa o di riflesso ai processi istituzionali con le risorse che questi processi garantiscono in termini di finanziamento pubblico, di visibilità mediatica”. La necessità, dicevamo ancora, è di “una diversa strumentazione e di un nuovo agire politico, più centrato su forme di autorganizzazione, di autofinanziamento, di autoproduzione d’informazione, forme che devono trovare nelle spinte reali della società l’alimento e le risorse per strutturarsi”. Lasciatemi dire: questo noi abbiamo fatto. In questi anni non c’è lotta, in tema di lavoro, casa, diritti sociali, di lotta Notav e altro ancora in cui non si sia stati presenti. Oltre a ciò abbiamo messo in moto tutta una serie di attività mutualistiche, di aggregazione sociale – il Circolo La Poderosa, i Gap, il Caf, lo sportello migranti, il dentista sociale e altro ancora – a partire dalla riorganizzazione di questa nostra sede in Casa del Popolo. Tutto questo tre anni fa non c’era ancora. Oggi dire di tutto questo non può che essere motivo di orgoglio. Cosi come lo deve essere la tenuta e, in diverse realtà territoriali, il rafforzamento della presenza del nostro partito. Adesso il compito che ci sta davanti è di andare al consolidamento e a una generalizzazione di questo lavoro. A tal fine è importante mantenere l’operatività e lo spessore di una direzione politica unitamente all’attivazione di nuove energie, alla promozione di una nuova leva politica.

Chiudo e vorrei farlo con parole di ringraziamento e di fiducia. Parole di ringraziamento a tutte le compagne e a tutti i compagni con cui ho condiviso passioni e fatiche politiche, in particolare alla segreteria provinciale chiamata a reggere la pressione di un lavoro assiduo e continuativo. Penso di poter dire che questi anni passati controcorrente siano stati un momento di crescita. Al di là delle parole di ringraziamento vorrei che ci portassimo sempre dietro l’ottimismo della volontà e della possibilità. A tal proposito torna utile la parabola di Bertold Brecht sull’intrepido sarto di Ulm. Il sarto dopo essersi costruito delle ali insisteva nel dire che l’uomo avrebbe potuto volare, finché il vescovo della città, contrariato da tale insistenza, gli disse: “prova, gettati dal campanile”. Naturalmente il sarto si sfracellò. Brecht però si chiede: chi aveva ragione, il sarto o il vescovo? Perché alla fine l’uomo, prova e riprova, è riuscito a volare. È proprio in ragione di ciò che vanno rifiutati tutti i discorsi che cercano di convincerci della nostra impotenza, discorsi impregnati di negatività, che parlano solo di crisi ma non della possibilità di liberarsene, discorsi che sono in ritardo rispetto a una realtà in ebollizione, discorsi che non individuano e agiscono i nuovi conflitti, le nuove possibilità di costruire il cambiamento.

Come diceva Marx, “la storia non fa niente”. Quello che conta sono gli uomini e le donne che agiscono nelle condizioni date per crearsi un avvenire con la propria azione concreta. Sta a ognuno e ognuna di noi consentire che un nuovo senso del possibile e del cambiamento si faccia strada.

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