di Loretta Deluca
La drammatica diffusione del coronavirus ha richiesto la chiusura delle scuole per diverse settimane Misura indispensabile, assolutamente straordinaria e prolungata, inaspettata e dal notevole impatto sociale.
Per le famiglie , è sorto il problema della custodia dei figli più piccoli. Per gli studenti la perdita di ore di lezione è consistente. Si è fatto ricorso, quindi, alla didattica a distanza.
La legge 107 ha previsto per tutte le scuole un Piano nazionale per la Scuola Digitale , con indicazioni per l’innovazione tecnologica e la digitalizzazione la promozione delle competenze negli studenti, predisposizione di attrezzature e software.
In questa situazione di emergenza, docenti e studenti si sono ritrovati a dover sperimentare le varie possibilità offerte dalla tecnologia. Immediatamente si sono scatenate offerte di formazione , corsi, pacchetti, programmi, piattaforme, molte gratuite in questo momento ma destinati ad essere concrete e consistenti possibilità commerciali per i grandi gruppi (Microsoft, Google , Apple ) che tendono a “colonizzare “ e spartirsi istituzioni scolastiche , fornendo magari supporti e consulenze . Non è secondario neanche il problema dei dati personali messi in circolazione attraverso l’uso dei sistemi.
Per tutti, (anche per le famiglie chiamate a seguire i bambini più piccoli nelle lezioni e nei compiti) un brusco sconvolgimento di abitudini; per i docenti, l’improvvisa necessità di preparare videolezioni, connettersi, utilizzare piattaforme, con una certa confusione legata allo stato di necessità, ( obbligo, modalità, gestione del registro elettronico ) e spesso una scarsa padronanza informatica. Un uso diverso della tecnologia, sorprendente anche per gli studenti ,che finora in prevalenza la riservano all’extrascuola . Si pone il problema della valutazione, probabilmente rinviato al rientro a scuola, ed anche di eventuali difficoltà nell’accesso ai dispositivi in famiglie numerose o semplicemente non attrezzate. Con entusiasmo variabile, e su pressioni di varia intensità da dirigenti e USR, gli insegnanti si stanno impegnando nel compito di assicurare parziale svolgimento dei programmi. Si teme anche , come da qualche parte si legge, che l’entusiasmo valichi i confini dell’emergenza e la didattica a distanza diventi prassi, magari per evitare di nominare supplenti sostituendo lezioni frontali con videolezioni da consumare a casa propria.
Ma si è capito subito che la partita non è nella trasmissione dei contenuti. Si tratta di tenere aperti canali di comunicazione emotiva, di alimentare quella comunità che abbiamo scoperto essere importante, insostituibile dalle classi virtuali. Collegarsi in videoconferenza, vedersi e parlarsi attraverso il monitor, diventa, inevitabilmente un modo di condividere parte del proprio privato- la stanza, il gatto che fa capolino, la quotidianità che emerge dai collegamenti . E che , come riportano le varie cronache di vita in epidemia raccontate sui social dagli insegnanti , sembrano abbattere barriere tra i ruoli . Si scopre ,allora, che si ha nostalgia delle interazioni scolastiche, delle dinamiche , anche faticose , che si instaurano.
Complice la clausura imposta dall’epidemia, improvvisamente sembra desiderabile la scuola come luogo di vita, di formazione, di crescita personale. Nella scuola dell’infanzia, dove la didattica è fatta soprattutto di relazioni e attività che richiedono la presenza fisica , lo sguardo, il gioco questo è ancora più vero.
Nella mia classe, noi insegnanti abbiamo deciso di dare un senso diverso alla famigerata e temuta chat di whatsapp dei genitori., utilizzandola per dire ai bambini che non li abbiamo dimenticati, che dobbiamo fare qualche sacrificio e che possono vincere la noia con quello che usiamo di più a scuola: a fantasia, l’immaginazione, la creatività, e che questo periodo di distanza fisica non ci impedisce di essere “noi”. Sarebbe bello che questa esperienza, potenzialmente anche traumatica per i più piccoli e non solo, diventasse occasione di crescita, di recupero del senso del collettivo, della società come luogo, l’unico, in cui gli individui possono vivere.
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