Il 27 febbraio 2023, Intesa Sanpaolo ha comunicato all’ABI la revoca del mandato di rappresentanza per le trattative sindacali.
Nonostante che questa interpretazione sia stata smentita dalla banca in un incontro con i sindacati aziendali (riducendo il tutto ad una bega tra banchieri), si tratta di un potenziale pesante attacco al Contratto Nazionale di categoria che, oltre tutto, viene sferrato proprio alla vigilia dell’apertura delle trattative per il suo rinnovo. Intesa Sanpaolo dice che “affiancherà” (!!) l’ABI nel percorso negoziale ma è del tutto evidente che, se i risultati finali non saranno ritenuti adeguati, potrà decidere di procedere sulla strada “secessionista” e farsi un contratto “tutto suo”. È una notizia bomba per le relazioni sindacali del settore, sicuramente inattesa ma che, letteralmente, non si può definire “un fulmine a ciel sereno”; era da tempo, infatti, che stavano addensandosi nubi nere, foriere di sinistri presagi.
Nel descrivere il contesto, vogliamo partire da una notiziola di inizio anno che non ha avuto particolari echi di stampa (tranne che sull’inesistente “Corriere dell’avidità”). Alludiamo al fatto che, Intesa Sanpaolo, primo gruppo bancario del paese che ha chiuso il bilancio 2022 con un utile di quasi 4,5 miliardi di euro, con un comunicato tutto sostenibilità ed ecologia (un clamoroso, e un po’ ridicolo, esempio di greenwashing) ha annunciato la decisione di togliere l’acqua calda da sportelli ed uffici, iniziando a procedere di conseguenza. Fortunatamente, dopo qualche giorno, l’intervento degli RLS (Rappresentanti dei Lavoratori per la Sicurezza) ha costretto i manager ad una precipitosa marcia indietro (alcune leggi ancora esistono…).
Una semplice provocazione? Può darsi. Tuttavia, l’episodio è indicativo di come, sempre più spesso, siano proprio gli RLS a svolgere un ruolo succedaneo (sostitutivo?) dei sindacati aziendali nel provare a contestare, sulla base di leggi e normative vigenti, le scelte padronali che puntano a ridisegnare a proprio piacimento gli ambienti di lavoro e le modalità del loro utilizzo (il “next way of working”) ed a scaricare su lavoratrici e lavoratori i costi diretti ed indiretti della “produzione” (e le connesse tutele) quanto questa venga svolta in una qualche stanza del proprio appartamento, naturalmente ribattezzata smart. La questione centrale è che, da alcuni mesi e con una progressione inquietante, i vertici della banca hanno deciso di buttare nella spazzatura (senza più nemmeno infingimenti formali) la vecchia (e dannata) prassi della concertazione, procedendo in una serie di iniziative unilaterali che toccano le colonne portanti della contrattazione collettiva: il salario e l’orario.
La “modernità” delle proposte su settimana corta e smart working (propagandata con enfasi dalla stampa amica) nasconde, in realtà, quanto di più antico ci sia nei desiderata dei padroni: frantumare la compagine lavorativa, individualizzare i contratti, trasformare i diritti in richieste sottoposte al potere del ricatto. Una scelta arrogante, per l’appunto, e secondo molti persino “sciocca” dal momento che i sindacati aziendali (che vengono umiliati e marginalizzati) non si sono certo distinti, per lo meno negli ultimi quindici anni, per combattività e radicalità; gli ultimi scioperi di gruppo, per limitarsi ad un esempio, si perdono nella notte dei tempi. Ed è particolarmente significativo il fatto che la banca abbia deciso di disdettare anche quell’accordo del 2017 che introdusse il mostruoso “contratto ibrido” (che mette insieme, nella stessa figura professionale, il lavoro subordinato e quello autonomo) ed i cui destinatari, infatti, sono stati popolarmente definiti “minotauri”.
Per quell’intesa (definita “sperimentale”) i sindacati aziendali ricevettero non pochi rimbrotti da parte delle sigle di settore (e non era la prima volta…) in quanto era evidente il suo carattere potenzialmente eversivo rispetto alla tenuta del contratto nazionale. Ora, a far saltare l’accordo, è stato sufficiente il rifiuto sindacale a rimuovere l’unica clausola in qualche modo tutelante (la possibilità per i “minotauri” di diventare lavoratori dipendenti a tempo pieno dopo due anni). Infastidita da lacci e lacciuoli la banca proverà anche qui ad andare avanti da sola, non bastandole più la pratica vendicativa di spostare a centinaia di chilometri di distanza dalla loro residenza i poveri “minotauri” che decidono di lasciare “l’esperimento”. E a proposito di ripicche, dietro lo schiaffone tirato all’ABI, c’è chi ha voluto vedere il fastidio per il fatto che il CASL (Comitato per gli affari Sindacali e del Lavoro), proprio l’organismo al quale è stata ritirata la fiducia, è stato affidato da dicembre scorso ad un esponente di Unicredit dopo anni nei quali era quasi sempre stato diretto da un alto dirigente di Intesa Sanpaolo.
Per carità, ci sta tutto (viste anche le dichiarazioni della banca), anche se il contesto descritto induce a pensare a motivazioni ben più di sostanza. È la dottrina Marchionne (afflitta sin dalla nascita dalla sindrome dei “primi della classe”) che prova a farsi strada nel settore. In realtà, per quanto concerne il comparto assicurativo, un precedente c’era già stato nel 2014 con l’uscita di UnipolSai da ANIA (ahi, lo spirito cooperativo!!). Ma questa volta la dimensione del problema è decisamente diversa. Intesa Sanpaolo, forte dei tanti favori scambiati con i governi di ogni sfumatura del solo colore possibile, è un attore chiave dell’economia nazionale. Non solo è la prima banca del paese ma è anche il primo datore di lavoro privato in assoluto e occupa quasi un terzo dei dipendenti oggi coperti dal contratto ABI. E ora, naturalmente, occorrerà vedere le contromosse di Unicredit, che, già anni fa, si vociferava avesse intenzioni simili.
Non è da escludere che i bancari potrebbero anche non avere più, nel prossimo futuro, un vero e proprio contratto nazionale di riferimento. In fondo sono passati solo dodici anni da quando Fiom, sinistra Cgil e sindacati di base invocavano lotte più incisive ricordando che quello che stava capitando in Fiat poteva, presto o tardi, toccare a chiunque altro. Occorre purtroppo ribadirlo. I padroni, i ricchi, i potenti stanno vincendo la lotta di classe anche perché sono perfettamente consapevoli di combatterla ed aprono costantemente nuovi fronti alimentando quella spirale, in apparenza inesorabile, che punta alla svalorizzazione del lavoro a vantaggio di profitti e rendite. Rifondazione Comunista si impegnerà affinché le lavoratrici ed i lavoratori di Intesa Sanpaolo e di tutto il settore acquisiscano rapidamente piena consapevolezza della portata dello scontro che si è aperto e premano sulle organizzazioni sindacali perché escano da quell’angolo nel quale, con concorso di colpa, si sono fatte cacciare.
Partito della Rifondazione Comunista – Sinistra Europea
Dipartimento Lavoro
Ufficio Credito ed Assicurazioni
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