PERCHE’ “LAVORO PUBBLICO”

Contributo delle Compagne e dei Compagni di Torino impegnati sulle tematiche del lavoro pubblico 

Occuparsi di Lavoro Pubblico significa innanzitutto occuparsi di 3,2 milioni di lavoratori e lavoratrici, fra Scuola, Sanità, Enti Locali, Ministeri ed altri Enti e servizi. Questi lavoratori e lavoratrici hanno un’età media superiore ai 50 anni, ed il loro organico è stato in costante diminuzione negli ultimi anni (165.000 unità in meno dal 2009 ad oggi). Il riconoscimento del loro lavoro è andato via via scemando, sia dal punto di vista salariale che della considerazione sociale. Pur essendo il settore sottoposto da anni ad una notevole ondata di privatizzazioni, tuttavia questi lavoratori e queste lavoratrici hanno ancora in larga maggioranza un contratto di lavoro a tempo indeterminato. E’ ovviamente importante, per noi, rivolgerci con attenzione ad un settore così significativo del mondo del lavoro.

Ma c’è un’ulteriore motivo per cui dobbiamo occuparci del Lavoro Pubblico, ed è una motivazione di ordine strategico. Si tratta del fatto che la Pubblica Amministrazione, nelle sue varie articolazioni, realizza potenzialmente, nel concreto, l’idea di società di cui intendiamo farci portatori e portatrici. Essa tocca, infatti, tutti gli aspetti della vita sociale: dal bisogno di salute al bisogno di istruzione e formazione, di cura dell’infanzia, fino al diritto all’abitazione e ad un’esistenza dignitosa: nessuno può dirsi estraneo all’intervento della Pubblica Amministrazione. Da questo punto di vista, i lavoratori e le lavoratrici del Pubblico rappresentano le forze agenti dello Stato Sociale, e con ciò costituiscono anche, malgrado il pesante attacco portato dall’ondata del neo-liberismo, un pezzo di società che produce servizi e che per sua natura si pone fuori dall’imperante logica del profitto e della mercificazione: occorre difendere ed estendere i servizi pubblici proprio perché essi non producono merci, ma crescita sociale.
Basti pensare agli svariati ambiti di intervento dello Stato Sociale che, oltre a operare per combattere l’ingiustizia sociale e per ridurre le diseguaglianze, in coerenza con quanto affermato dall’articolo 3 della Costituzione, in una sua un’accezione estensiva, deve svolgere un ruolo attivo nell’economia, avere la capacità e la forza di disegnare le linee dello sviluppo economico, con particolare riferimento alla difesa dell’ambiente e del territorio, guidare i processi di innovazione. Va sottolineato, inoltre, che la centralità della questione ambientale e la sua stretta correlazione con il benessere e la salute della popolazione impongono di declinare la concezione e le funzioni dello Stato Sociale in termini di guida della transizione ecologica, con tutti i risvolti economici, politici e sociali che ciò comporta.
Infatti, questo capitalismo predatorio e distruttivo, devastante per gli umani e per il pianeta, ripropone con forza la necessità di una ripresa del ruolo pubblico negli svariati gangli della società, con una funzione di orientamento e con interventi diretti, con investimenti mirati, con la formazione di una classe dirigente pubblica dotata di capacità strategica, con lo sviluppo di buona occupazione, ma anche, sul versante dei lavoratori, con la valorizzazione, anche contrattuale, di responsabilità e capacità di innovazione in risposta ai bisogni emergenti della cittadinanza: ai lavoratori e lavoratrici serve un’iniezione di orgoglio per il ruolo determinante per il benessere dell’intera collettività.
La crescita, negli ultimi decenni, delle diseguaglianze sociali, frutto delle sconfitte subite dai movimenti di lotta, a fronte dei mutamenti dell’organizzazione capitalista e delle crisi endemiche e ricorrenti, ha ridisegnato i diritti sociali, riducendoli nei fatti, quando non anche formalmente -si pensi alla rinuncia alle cure mediche o alla carenza di alloggi pubblici o ancora, in ambito lavorativo, alla cancellazione dell’art. 18 e alla precarizzazione del rapporto di lavoro- perciò rivendicare investimenti nei servizi per il sociale è fondamentale, mentre il progressivo disimpegno dello Stato in termini di investimento di risorse e di gestione diretta nei principali settori del welfare (sanità, istruzione, pensioni, assistenza) ha amplificato le differenze di classe , aumentando il numero di persone a rischio di povertà (economica e culturale), generando categorie di cittadinanza differenti, diseguali, ingiuste e tendenzialmente disgreganti dell’intero contesto sociale.
Vale la pena ribadire che uno Stato Sociale indebolito e residuale, quindi con una sempre più ridotta azione di redistribuzione della ricchezza, determina una cittadinanza diseguale e che questa, intersecandosi con l’asimmetrica divisione del lavoro riproduttivo, favorisce e mantiene forme specifiche di illibertà, costrizione, repressione e violenza per le donne, nonché pericolose regressioni culturali: sotto questo aspetto, ragionare di lavoro pubblico, con il corollario di estensione dei servizi alla persona, di risorse per le politiche di assistenza e di promozione sociale, deve avere ben presenti bisogni e necessità non neutri e compiti non equamente distribuiti in termini di tempi e carichi di lavoro, sia che ci si riferisca alla lavoratrice, sia alla cittadina.
Il settore pubblico ha subito negli anni colpi assai pesanti: l’epidemia di COVID ha oltremodo evidenziato gli scompensi determinati dall’aver gravemente sottostimato l’importanza determinante del settore pubblico nella sfera della riproduzione sociale; scompensi che, già evidenti nella fase di cosiddetta “normalità”, si sono espressi in maniera particolarmente drammatica in una fase di acuta criticità. Si “scopre” così che cosa ha significato aver ridotto l’organico del personale medico e infermieristico e la spesa per la prevenzione, aver mantenuto la Scuola in stato di precariato, con edilizia pericolosa e insufficiente, e classi sovraffollate, non aver previsto sufficienti interventi in termini di sostegno al reddito e ammortizzatori sociali universali (solo per fare alcuni esempi fra i tanti).
In questo contesto, alla luce di quanto detto, diventa fondamentale la capacità, da parte nostra, di definire una nostra idea di Amministrazione Pubblica, che corrisponda alla nostra più generale idea di Società, specie nel momento in cui si avvia la discussione relativa all’utilizzo e alla distribuzione dei fondi europei (“recovery fund” o “next generation”, come dir si voglia).
Ribadiamo che si tratta quindi, partendo da questa peculiarità, di esprimere e praticare un’idea di lavoro per il pubblico benessere, per i beni comuni, al servizio della popolazione tutta e in particolare dei suoi settori più deboli, in unione indissolubile con la nostra idea di Stato Sociale.
Qualificare, estendere, retribuire adeguatamente il Lavoro Pubblico significa rafforzare lo Stato Sociale, di cui il Lavoro Pubblico rappresenta la concretizzazione; significa corrispondere a bisogni sociali crescenti, i quali, se non ricevono adeguata risposta pubblica, finiscono irrimediabilmente per essere esposti all’intervento del Privato, che li vede come terreno di ricerca del profitto (specie in fase di difficoltà di remunerazione) e inevitabilmente li distorce in un’ottica di accentuata diseguaglianza. A questo proposito, andrà portato avanti, volendo preservare una impostazione universalistica del servizio pubblico, un discorso di opposizione all’affermarsi di qualsiasi ipotesi di “welfare aziendale” e si dovrà agire per garantire un livello qualitativo dei servizi valido uniformemente sul territorio nazionale, contro le varie ipotesi di “autonomia regionale”.
Questo obbiettivo di sviluppo e di qualificazione deve necessariamente comportare un grande investimento in risorse economiche e umane, attraverso un ragionamento esteso all’insieme dell’amministrazione pubblica e ai suoi fabbisogni, a partire dai settori maggiormente in sofferenza: ciò significa essere in grado di definire un piano di assunzioni adeguato alle necessità reali (identificando quindi bisogni fondamentali e servizi corrispondenti) e non più svuotato da criteri di mero “risparmio economico”, reperendo tali risorse attraverso una diversa politica fiscale, fortemente progressiva ed orientata a far pagare il dovuto alle grandi ricchezze, colpendo innanzitutto col necessario impegno (e adeguati organici ispettivi) l’evasione fiscale.
Naturalmente, partire da questa impostazione generale non significa rinunciare a calarsi nella realtà specifica di ogni settore del Pubblico: Sanità e Scuola, certamente, ma anche tutte le altre articolazioni che formano la struttura dello Stato Sociale, a cominciare dai Comuni, che si sono visti ridurre in vario modo le disponibilità di bilancio, essendo così sospinti scientificamente a svendere il patrimonio pubblico e che incontrano quindi sempre maggiori difficoltà a svolgere in maniera efficace le loro attività proprie (dagli uffici anagrafici agli asili nido, passando per la gestione del verde pubblico), andando alla perenne ricerca di finanziamenti, dall’Europa, dalle Regioni, dalle Fondazioni bancarie, fino al ricorso ai famigerati “derivati” .
Resta quindi fondamentale e andrà anzi rafforzato, il nostro farci carico di tematiche quali condizioni di lavoro, salario, organici, rinnovo dei Contratti, ecc. In questo senso, diventa fondamentale, nell’organizzazione stessa dei servizi, favorire al massimo il potere di intervento dei lavoratori e delle lavoratrici, superando una situazione in cui spesso la gerarchia blocca autonomia e auto-organizzazione. Ciò deve essere possibile anche liberando dai troppi vincoli esterni la contrattazione, dal livello nazionale ai singoli posti di lavoro, garantendo un ruolo effettivo, in particolare, alle RSU elette direttamente dai lavoratori e dalle lavoratrici. Così come occorrerà costruire forme efficaci di partecipazione della cittadinanza al funzionamento della cosa pubblica. Deve essere chiaro che non esiste alcuna contraddizione di principio fra lavoratori/lavoratrici del servizio pubblico e cittadini/cittadine, stante l’interesse comune al buon funzionamento del servizio pubblico, sia esso quello che si occupa di lavoro di cura (Scuola, Sanità, Welfare dei Comuni) sia quello che si occupa di “benessere generale” (cantonieri, addetti al piano regolatore, ecc.). Del resto, i lavoratori e le lavoratrici che operano nei servizi pubblici ne sono ovviamente anche, al pari degli altri cittadini e cittadine, fruitori e fruitrici. Come già sottolineato, un ragionamento specifico, e importante, va avviato su come, dentro questo incrocio, si inseriscono le tematiche relative alla politica di genere e al lavoro di cura.
Di eccezionale importanza sarà dar luogo ad una iniziativa concreta per conquistare parità di trattamento fra lavoratori/lavoratrici che sono a tutti gli effetti dipendenti pubblici e lavoratori/lavoratrici che concorrono ugualmente all’erogazione del servizio pubblico, ma operando con contratto privato (ad esempio lavoratori e lavoratrici delle cooperative), agendo nella prospettiva generale di un Servizio Pubblico che, come tale, sia interamente gestito da strutture pubbliche.
Così come andrà portato avanti, volendo preservare una impostazione universalistica del servizio pubblico, un discorso di opposizione all’affermarsi di qualsiasi ipotesi di “welfare aziendale”.

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