Sulle didattiche “a distanza” nella scuola ai tempi del coronavirus

di Luigi Saragnese insegnante- già assessore alle Risorse educative del Comune di Torino
L’esplodere della epidemia Covid 19 cui abbiamo assistito in queste settimane ha costituito uno shock per il nostro paese e più in generale, per le dimensioni globali che essa ha assunto, per tutto il mondo, colpendo ogni settore vita della vita associata e dell’economia, dalla produzione dei beni materiali al terziario, ai servizi, fino a stravolgere la vita quotidiana di miliardi di individui.

Particolarmente grave si è rivelata la crisi dal punto di vista sanitario e l’Italia non è certo arrivata pronta a questa prova, come testimonia l’altissimo numero di vittime, sia in cifra assoluta che in percentuale rispetto alla popolazione.

Il nostro sistema sanitario ha mostrato tutti i segni delle politiche liberiste di privatizzazione dei servizi pubblici messe in atto da più di vent’anni dai governi che si sono via via succeduti, politiche che hanno visto il progressivo ritirarsi dallo stato dagli investimenti nella sanità pubblica, a tutto beneficio della sanità privata: si calcola che oltre 3 miliardi e mezzo sono stati distolti dal bilancio dello Stato in questo settore (23 mila posti letto negli ultimi 10 anni e oltre 41 mila infermieri e medici del Servizio sanitario nazionale in meno) per essere via via impegnati nell’azione di “risanamento” del bilancio della spesa pubblica, sottoposta ai vincoli sempre più stretti dettati dall’Unione Europea e colpevolmente accettati dai nostri governi.
Con la chiusura completa degli edifici scolastici e la cessazione dell’attività ordinaria, anche la scuola e l’università, già stremate dalle scelte politiche di questi ultimi decenni che si sono manifestate concretamente in una massiccia riduzione di risorse, si sono trovate a vivere le conseguenze dell’epidemia. Ricordiamo tutti le scelte dei governi di centrodestra che hanno portato ad una riduzione del bilancio della Pubblica Istruzione di ben 8 miliardi e mezzo, tagli che successivamente sono stati sostanzialmente mantenuti anche dai governi di centrosinistra, in ossequio ai dettami delle politiche neoliberiste.
Quando si parla perciò della scuola, in riferimento alle conseguenze della pandemia del coronavirus, bisogna innanzitutto avere presente il lento degrado provocato dalle politiche dei decenni precedenti e gli effetti che esse hanno determinato negli organici del personale docente e ATA ( sono 150 mila i docenti precari nell’anno scolastico in corso), nello stato delle sue strutture materiali ( blocco degli investimenti per le nuove costruzioni, ma anche per la manutenzione), nella sua offerta didattica, nei servizi per il diritto allo studio che essa dovrebbe essere in grado di erogare a milioni di scolari e di studenti.
La scuola è stata costretta nel giro di poche settimane a dotarsi di strumenti per tentare e di continuare a svolgere il suo ruolo istituzionale in una situazione di emergenza. E di emergenza bisogna parlare per capire che cosa è accaduto in queste settimane: docenti al lavoro, senza orario, per mettere in piedi strumenti di comunicazione digitale con i propri allievi, per utilizzare con modalità diverse strumenti ordinari quali il registro elettronico, o il telefono personale per cercare di preparare materiali didattici e tenere contatti con gli alunni. Non c’è stata la possibilità di organizzare collegialmente una discussione sulla didattica da attivare, con collegi dei docenti, convocati on line, chiamati, il più delle volte, a ratificare in forma plebiscitaria le indicazioni ministeriali, nell’impossibilità a svolgere alcuna discussione, né il Ministero è stato capace di fornire indicazioni chiare sugli strumenti, sugli obiettivi cui mirare, sulle finalità educative da perseguire in situazione di emergenza. Si è preferito iniziare a parlare di Didattica a Distanza, per dar vita ad una retorica dell’innovazione (“la scuola non si ferma”), scambiando e facendo coincidere il significato neutro di innovazione, che è un “bene” perché rende più competitive le merci nel mercato capitalistico, con quello di progresso, nel suo significato positivo di matrice illuminista di miglioramento generale delle condizioni di vita del genere umano. In tal senso si è indirizzato il mondo dei media che, attraverso l’uso e l’abuso di termini di moda o buzzword e anglicismi ( 1) ha iniziato a parlarne come strumento salvifico, non per far fronte a una situazione eccezionale di emergenza sanitaria, ma come una nuova modalità di fare scuola, caratterizzata dalla “smaterializzazione del rapporto didattico”, un modello di scuola proposto come valido per l’oggi e ancora di più per il domani .
Proviamo dunque a fare un po’ di chiarezza: la didattica a distanza è davvero una novità nella scuola italiana? Che cosa bisogna intendere per didattica a distanza? Quali problemi solleva e quali difficoltà comporta la sua implementazione? E ancora: esiste la didattica a distanza, ovvero una sola modalità per sviluppare processi di insegnamento- apprendimento non in presenza finalizzate a ridurre la distanza tra docenti ed allievi, oppure sarebbe bene parlare di didattiche, al plurale, digitali, sperimentali o tradizionali a distanza?
Per formazione a distanza (FAD) si può intendere l’insieme nelle attività didattiche svolte da allievi e docenti che non sono compresenti nello stesso luogo e ha una storia lunga, tanto che si tende a distinguere una “prima generazione”, quella presente già dalla metà dell’Ottocento, basata sulla corrispondenza postale, di una “seconda generazione” novecentesca, che utilizzava tecnologie audiovisive (es. i corsi di alfabetizzazione di A. Manzi di “Non è mai troppo tardi”), e infine quella basata sulle tecnologie informatiche sin dalla seconda metà degli anni ’80 del secolo scorso ( 2)  . Comune a queste diverse modalità era la finalità: esse erano state progettate per essere rivolte in maniera specifica per la formazione degli adulti, modalità questa che è utilizzata da alcuni anni nei corsi universitari online, negli atenei telematici e per la formazione professionale rivolta a studenti e lavoratori. Nella scuola, forme di didattica “a distanza” sono state introdotte negli ultimi vent’anni e di cui sono esempio quelle che vengono utilizzate per gli allievi che per motivi di salute non possono essere in grado di seguire le lezioni in classe. È bene però chiarire che nessuna delle forme di didattica “a distanza” che sono state appena ricordate ha mai sostituito completamente la didattica in presenza e il suo utilizzo: il già richiamato “Non è mai troppo tardi”, ad esempio, era un progetto complesso di educazione a distanza, articolato sulla messa in onda televisiva e su oltre 2.000 Pat (posti di ascolto televisivo) sparsi sul territorio nazionale, dove un insegnante seguiva insieme al gruppo di allievi la trasmissione e poi svolgeva con loro l’attività didattica di “tutoraggio”, che consentiva di consolidare gli apprendimenti. Dunque, questo è l’elemento realmente nuovo delle didattiche digitali “a distanza” utilizzate in questi mesi nelle nostre scuole: l’aver sostituito forzosamente ogni altra forma di didattica, senza discussioni e decisioni condivise, senza studi preliminari, senza attraversare fasi intermedie di programmazione e prova fino alla loro messa in opera definitiva, ma affidandosi quasi esclusivamente alle piattaforme digitali dell’e-learning delle grandi corporation.
Come dimostra anche l’esperienza di queste settimane, il loro impiego si è rivelato sempre più problematico man mano che diminuisce l’età degli allievi ai quali è rivolta. Soprattutto nella scuola primaria e nella scuola secondaria di primo grado, è infatti oggettiva la difficoltà dei docenti a mantenere durante le video lezioni una prospettiva di partecipazione, di laboratorio che è possibile fondamentalmente solo nella pratica didattica in classe. Come scrive M. Baldacci “ i limiti della didattica a distanza sono evidenti. In presenza si crea un contesto di relazione sociale in cui l’insegnante mette in gioco un’interazione faccia a faccia; questo aumenta la pregnanza della sua azione didattica, e produce una incisività socio-affettiva maggiore di quanto non consenta un rapporto a distanza. In presenza non è in gioco solo il linguaggio verbale, ma intervengono anche codici non verbali fondamentali nei processi di socializzazione. (3)” Si pensi ai problemi che derivano dal funzionamento delle stesse piattaforme digitali, dalla verifica continua del canale comunicativo audio- video , dalla gestione degli interventi che imponendo di stabilire rigidi turni di parola per gli interventi, tendono ad irrigidire la lezione e ad inibire la possibilità di una reale situazione di scambio. Viene così a mancare la situazione del gruppo classe, basata sulla relazione fra i discenti e tra il docente e gli allievi, proprio in virtù del confronto che si realizza nello stesso gruppo classe.
E del tutto evidente che una realtà come quella appena descritta non è in grado di garantire il diritto all’apprendimento che la scuola pubblica italiana dovrebbe assicurare a tutti gli studenti, qualunque sia la loro situazione sociale o la loro nazionalità. Particolarmente compromesso appare tale diritto per gli alunni con disabilità o in situazioni economiche di emarginazione, e questo indipendentemente dalla presenza e dal possesso dei dispositivi che le scuole possono avere o non avere distribuito a questi allievi. Non è solo una questione di divario digitale e di tablet e PC mancanti, divario da recuperare a ogni costo attraverso un sostanzioso impiego di risorse economiche da parte dello Stato. L’accesso alle nuove tecnologie può integrare e arricchire la didattica, ma l’accesso allo spazio democratico della scuola è l’unica possibilità per costruire inclusione e cittadinanza. Da questo punto di vista le didattiche a distanza non possono in alcun in alcun modo sostituire la scuola e il gruppo classe , il luogo dove partendo dalla relazione e dal confronto è possibile imparare e crescere come cittadini.
Come si è certamente notato, sto usando il termine didattiche al plurale e “a distanza” perché condivido l’analisi di quanti giustamente sostengono che “non esiste “la” didattica a distanza, così come non esiste “la” didattica digitale. In entrambi i casi – e non è pedanteria – l’uso dell’articolo determinativo è riduttivo delle articolazioni e delle differenze che invece si hanno nella realtà dei fatti (4).” Con la chiusura degli edifici scolastici, le scuole si sono trovate nella condizione di mettere in atto pratiche didattiche di emergenza con logistica digitalizzata, cioè con strumenti informatici che grazie a funzionalità telematiche hanno attenuato gli effetti negativi della distanza, permettendo una qualche forma di continuità che ha consentito di non vanificare del tutto i percorsi di studio dell’anno scolastico in corso. Non dunque di una fumosa, astratta e generica “spinta all’innovazione” si è trattato, quanto della necessità di trovare nell’immediato risposte concrete ad una altrettanto concreta emergenza. Ad oggi, peraltro, non sappiamo, grazie anche al colpevole silenzio del Ministero, quale sia il numero degli studenti/esse “dispersi”, cioè scomparsi dai quotidiani contatti degli insegnanti, anche se più voci sostengono trattarsi di circa il 20%, in grande maggioranza presenti nei piccoli centri urbani, nelle periferie delle grandi città, fra gli immigrati e nel Sud. Se tale dato fosse confermato, ci troveremmo di fronte al plateale fallimento dei compiti che la Costituzione si è data all’art. 3 (: E` compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale, che, limitando di fatto la libertà e l’eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana …) e di cui la scuola pubblica è portatrice, e la conferma che la distanza non può in alcun modo essere considerata una risorsa per l’azione educativa, perché produce l’effetto di esacerbare le diseguaglianze.
Da quanto detto finora emerge, dunque, la necessità di abbandonare i facili entusiasmi e gli inutili propagandismi che hanno accompagnato la vicenda scolastica di questi mesi, per affrontare sino in fondo le questioni che ci stanno di fronte, anche in vista del prossimo anno scolastico. Vi è necessità ad esempio di un monitoraggio indipendente, come richiesto da più parti, sulle esperienze compiute in questi mesi, sulla strumentazione, sulle piattaforme digitali utilizzate e sui risultati conseguiti. Tale monitoraggio indipendente (a proposito: quando il ministero farà conoscere quali risultati in termini di miglioramento della didattica ha prodotto il Piano Nazionale Scuola Digitale varato nel 2015?) è tanto più indispensabile, quanto più, con frequenza crescente, il Ministero non perde occasione per prefigurare un futuro della scuola italiana che “non potrà fare a meno delle esperienze accumulate nel corso di quest’anno”. È lo stesso Ministero che arriva a prospettare un anno scolastico da svolgere “metà in presenza e metà a distanza”, mentre sin dall’inizio dell’emergenza, lo stesso Ministro definiva le GAFAM, l’acronimo delle grandi corporation – Google, Apple, Facebook, Amazon, Microsoft – aziende con una capitalizzazione di Borsa di circa 3.541 miliardi di dollari, partner e non semplici fornitori di servizi, trasformandole così, ipso facto, in strutture di intervento del ministero.
Nella grande maggioranza delle scuole secondarie le lezioni in sincrono o in asincrono sono state svolte utilizzando le piattaforme digitali delle grandi corporation da Google Classroom a Meet, da Microsoft Teams fino a Zoom, e non poteva essere altrimenti, considerando i tempi e le modalità con cui tutto è avvenuto. Ma le piattaforme GAFAM non sono neutre, esse veicolano contenuti uniformi, riprogrammano e orientano le nostre azioni scavalcando i media tradizionali, si appropriano e profilano i dati degli utenti, il loro lavoro intellettuale e tendono ad indurre una fidelizzazione precoce .
Dunque, in gioco ancora una volta vi è la libertà di insegnamento che, occorre ricordarlo, sta nella nostra Costituzione non tanto a “difesa” dei docenti, ma soprattutto a difesa del diritto all’apprendimento e all’educazione delle giovani generazioni. In gioco vi è una nuova fase di lotta per l’egemonia finalizzata alla creazione del consenso che le piattaforme di sorveglianza stanno conducendo e di cui non solo i comuni fruitori della Rete, ma nemmeno la grande maggioranza dell’intellettualità, ha percezione. Come è noto agli studiosi degli effetti del colonialismo, qualsiasi forma di dominio e di sfruttamento non è mai veramente effettiva se prima non abbia completamente conquistato le culture e le conoscenze dei dominati. Attraverso l’offerta di un modello vincente il colonizzatore renderà sempre più irrilevante la cultura precedente per i suoi stessi detentori, fornirà uno standard che i colonizzati non potranno non abbracciare, in un processo di autospossessamento in cui, come nota Paulo Freire, a un certo punto l’oppresso vuole essere come l’oppressore o, per dirla con Gramsci, quando la cultura dei subalterni, il loro senso comune tende a conformarsi, a far propria, uniformandosi, alla cultura e al senso comune del gruppo dominante. A me pare che la “struttura materiale dell’ideologia” (5) di questa moderna egemonia, ieri rappresentata da “case editrici,, giornali politici, riviste di ogni genere,” etc., sia oggi da rintracciarsi proprio nella straordinaria pervasività della Rete e delle piattaforme digitali della conoscenza, che possono essere contrastate solo contrapponendo loro un moderno “spirito di scissione”, come Gramsci chiamava la presa di coscienza della propria soggettività da parte delle classi che vogliono emanciparsi dalla condizione di subalternità.
Per questo, pensare alla scuola che verrà, rifuggendo dagli entusiasmi dell’innovazione tecnocratica ma anche dal tecnosnobismo che si manifesta nella semplice richiesta del ripristino dello “stato precedente delle cose”, non può significare auspicare semplicemente il ritorno alla “normalità”, quasi che il ritorno alla scuola pre-covid, indipendentemente dalle sue finalità educative, possa costituire il ritorno alla scuola che emancipa e che costruisce cittadinanza, alla scuola che vorremmo. Al contrario, occorre cogliere l’occasione dell’emergenza sanitaria per rilanciare un’idea e una pratica di scuola che sia posta al centro delle politiche pubbliche, dotata dei necessari finanziamenti che la rendano sicura e accogliente, una scuola partecipata e collegiale, democratica nei processi decisionali, non subordinata alla logica della crescita del “capitale umano”, in grado di realizzare quel processo reale di liberazione che Gramsci definiva “progresso intellettuale di massa” (6)

1 Riporto solo alcuni esempi di vocaboli di uso corrente nel linguaggio delle piattaforme digitali di e-learning: webinar, WebTools, facilitator, coach, teambuilder, self-builder , higher education, open access or corporate platforms , one to-many transmission, “TED Talks” model or “MOOC”, type approach “time expensive” e “time consuming”, policy makers, blended learning, digital divide, etc.
2 Cfr. S. Bontempelli, https://dinamico2.unibg.it/lazzari/0506idu/distanza.pdf
3 M. Baldacci, intervista, https://www.collettiva.it/a-scuola-il più presto possibile
4 M. Guastavigna, Dad e piattaforme – spunti di riflessione, https://concetticontrastivi.org
5 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 3, § 49 Argomenti di cultura. Materiale ideologico, a cura di V. Gerratana, p. 332-333
6 Antonio Gramsci, Quaderni del carcere, quaderno 11, a cura di V. Gerratana, p. 1384

 

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