Contributo da Partito della Rifondazione Comunista -Federazione di Torino
Ufficio credito e assicurazioni
Nei giorni scorsi i mezzi di informazione locali (ma non solo) si sono spesso occupati, con servizi corredati da foto o filmati, delle “code” di clienti che si sono formate quasi quotidianamente (e a partire dalle prime ore dell’alba) di fronte all’ingresso della sede torinese del Monte Pegni di Intesa Sanpaolo. Grande afflusso e qualche assembramento anche presso lo sportello napoletano di Via San Giacomo.
Naturalmente, queste situazioni sono state giornalisticamente collegate alla grave crisi economica e sociale aperta dall’emergenza coronavirus. E non vi è dubbio che sia anche così.
Le analisi più approfondite, peraltro, non mancano di far notare che il servizio di credito su pegno, anche in tempi normali, sia tutt’altro che un residuo del passato, il che ben evidenzia, tra l’altro, l’emergere di nuove fasce di povertà. Il distanziamento sociale, quindi, avrebbe semplicemente reso più manifesto un fenomeno che prima, almeno in parte, si celava nelle affollate sale d’aspetto interne agli sportelli.
Che si tratti di rinnovi di pegni in scadenza o di nuove operazioni, una cosa ci sembra chiara ed è il carattere sociale, pubblico, del servizio offerto che, come tutti sanno, è spesso un’alternativa di frontiera ad altre più facili e rapide forme di finanziamento come quelle garantite dall’usura o dalla criminalità organizzata.
Non è certo un caso che proprio quelle viuzze che contornano l’isolatone occupato dalla storica sede Sanpaolo di Via Monte di Pietà (che oggi ospita anche il modernissimo Museo del Risparmio creato e finanziato dalla banca…), dove si sono formate le “code” di cui si diceva all’inizio, siano spesso frequentate da personaggi “un po’ equivoci” che cercano di intercettare, all’ingresso o all’uscita, i clienti del Monte Pegni più disperati o insoddisfatti.
Personaggi che, per di più protetti dalla mascherina di ordinanza, sono certo molto attivi anche in questi giorni. E naturalmente di esempi simili se ne possono fare anche per altre città.
Continuiamo a credere che un servizio come quello del credito su pegno dovrebbe essere svolto prioritariamente da una banca o finanziaria pubblica. Tra l’altro, ça va sans dire, si tratta di un’attività profittevole (e garantita) in grado quindi di autofinanziarsi anche nell’auspicabile ipotesi di applicare alla clientela tassi di interesse meno onerosi e condizioni più uniformi sul territorio.
E invece si tratta di un’attività oggi integralmente gestita dai privati.
Da un punto di vista che ormai possiamo definire “storico”, il punto di svolta è rappresentato dalla fase di privatizzazione del sistema bancario nazionale avviata a partire dagli anni novanta e dal conseguente processo di concentrazione che ha finito per consegnare in poche mani quasi tutte le storiche sedi dei monti di pietà ubicate nelle principali realtà urbane.
Ma il business non può mai star fermo e la situazione, proprio in questi anni, sta cambiando radicalmente e non certo in meglio.
All’interno delle ben più ampie strategie di esternalizzazione portate avanti dai principali gruppi bancari, si sta infatti affermando la tendenza alla cessione dell’attività di credito su pegno a piccoli, privatissimi, operatori specializzati.
Senza voler attribuire alcuna patente di particolare eticità alle grandi banche nostrane (tutt’altro…), ci sembra tuttavia che il servizio da loro offerto potesse rappresentare, non solo per i dipendenti ma anche per la clientela, una qualche garanzia in più: in termini di radicamento sul territorio, di continuità del rapporto ma soprattutto per il fatto che quella tipologia di business rappresentava per loro solo una piccola parte dell’attivo e non la principale ragion d’essere…
Staremo a vedere, in particolare, gli sviluppi di quella che è stata, nel 2018, l’operazione che ha segnato la strada e cioè la cessione, per circa 140 milioni di euro, dell’intero ramo d’azienda del credito su pegni di Unicredit (35 sportelli e 165 dipendenti) alla società “veicolo” Custodia Valore, poi acquisita al 100% dalla prestigiosa casa d’aste austriaca Dorotheum (!).
Agli inizi di quest’anno Custodia Valore, divenuta nel frattempo Affide SpA, ha rilevato “In Pegno”, il ramo di attività del Gruppo Creval (Credito Valtellinese) con un’operazione (piuttosto controversa dal punto di vista sindacale) dal valore di 38 milioni di euro (e plusvalenza monstre di 33 per i cedenti).
Tornando alle code torinesi, chissà quanti dei vecchi e dei nuovi clienti sanno che, recandosi allo sportello fra qualche mese, per chiudere o rinnovare l’operazione, al posto di quelle di Intesa Sanpaolo troveranno le insegne di Qui Pegno, piccola società specializzata interamente controllata dall’altrettanto piccola Banca Sistema.
Il 18 novembre scorso, infatti, un comunicato stampa dell’acquirente rendeva noto l’accordo raggiunto per il passaggio proprietario delle sei filiali del Monte Pegni di Intesa San Paolo. Le/i circa 70 lavoratrici e lavoratori coinvolte/i (e le organizzazioni sindacali) lo sono venute/i a sapere così e per oltre un mese nessun ulteriore dettaglio è stato fornito dalla banca che si vantava di essere “il più bel posto dove lavorare”.
Modalità barbare (non ci rassegneremo mai al fatto che i lavoratori possano essere ceduti come il mobilio) che si accompagnano allo sconcerto per una decisione che, ancor più che nel caso di Unicredit, cancella con un tratto di penna le origini storiche di molti istituti di credito confluiti nel primo gruppo bancario italiano (oltre al Sanpaolo si pensi, ad esempio, al Banco di Napoli).
Al di là di tutto ciò, quello che colpisce negativamente, non per pregiudizio ma per esperienza, è la sproporzione tra il ramo d’azienda acquisito (60 milioni di crediti) e le dimensioni dell’acquirente (10 milioni di crediti e 16 addetti) che è stato disposto a pagare ben 34 milioni di euro.
Le preoccupazioni, naturalmente, valgono sia per la clientela sia per i dipendenti come ha confermato una trattativa sindacale difficile, che ha raggiunto primi risultati (non esaltanti) in febbraio ma che non ha ancora affrontato il problema fondamentale delle tutele occupazionali per i “venduti”.
L’emergenza coronavirus ha poi dilatato i tempi di tutto: del confronto sindacale, della preannunciata ricapitalizzazione di Qui Pegno, della stessa definizione formale dell’operazione.
Per concludere, ci sembra evidente (in ciò confortati anche da fonti sindacali) che la situazione descritta sia una precisa concausa del disservizio del Monte Pegni torinese di Via Botero (come quello di altri della banca, peraltro in maniera più intermittente).
A fronte dei cronici e dei nuovi problemi di organico (peraltro propriamente non motivatissimo…) risulta infatti difficile pensare che Intesa Sanpaolo abbia potuto (e voluto) efficacemente intervenire con sostituzioni, affiancamenti, formazione per un’area di business che aveva già deciso di vendere ad un ben determinato prezzo.
Insomma, separate da un bancone, si sono incontrate, da un lato, nuove e vecchie disperazioni e, dall’altro, evitabilissime preoccupazioni rispetto al proprio futuro lavorativo.
Il tutto rigorosamente in ambito privato.
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