di Serena Giannico
Il 17 aprile si andrà alle urne contro le trivelle e la petrolizzazione offshore. Abbiamo chiesto alcuni chiarimenti al coordinamento nazionale «No triv».
Di che si tratta?
E’ un referendum abrogativo, e cioè di uno dei pochi strumenti di democrazia diretta che la Costituzione italiana prevede per richiedere la cancellazione, in tutto o in parte, di una legge dello Stato. Perché la proposta soggetta a referendum sia approvata occorre che vada a votare almeno il 50% più uno degli aventi diritto e che la maggioranza si esprima con un «Sì». Hanno diritto di voto tutti i cittadini italiani, anche residenti all’estero, che abbiano compiuto la maggiore età. Scrivendo «Sì» sulla scheda i cittadini avranno la possibilità di eliminare la norma sottoposta a referendum.
Dove si voterà e cosa si chiede esattamente con questo referendum?
Si voterà in tutta Italia e non soltanto nelle regioni che hanno promosso il referendum per chiedere di cancellare la norma che consente alle multinazionali del greggio di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia dalle coste del nostro Paese senza limiti di tempo.
Qual è il testo del quesito?
Il testo è il seguente: ’Volete voi che sia abrogato l’art. 6, comma 17, terzo periodo, del decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152, ’Norme in materia ambientale’, come sostituito dal comma 239 dell’art. 1 della legge 28 dicembre 2015, n. 208 “Disposizioni per la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello Stato (Legge di Stabilità 2016), limitatamente alle seguenti parole: “per la durata di vita utile del giacimento, nel rispetto degli standard di sicurezza e di salvaguardia ambientale?’.
È possibile che qualora il referendum raggiunga la maggioranza dei «Sì» il risultato venga poi «tradito»?
A seguito di un esito positivo del referendum, la cancellazione della norma che al momento consente di estrarre gas e petrolio senza limiti di tempo sarebbe immediatamente operativa. L’obiettivo del referendum mira a far sì che il divieto di estrazione entro le 12 miglia marine sia assoluto. Come la Corte costituzionale ha più volte precisato, il Parlamento non può successivamente modificare il risultato che si è avuto con il referendum, altrimenti lederebbe la volontà popolare espressa attraverso la consultazione. Qualora però non si raggiungesse il quorum previsto perché il referendum sia valido (50% più uno degli aventi diritto al voto), il Parlamento potrebbe fare ciò che vuole: anche mettere in discussione la zona offlimits.
È vero che se vincesse il «Sì» si perderebbero posti di lavoro?
Un esito positivo non farebbe cessare immediatamente, ma solo progressivamente, alla naturale scadenza, le attività petrolifere interessate dal provvedimento. Prima che il Parlamento introducesse la norma sulla quale gli italiani sono chiamati al voto, le concessioni per estrarre avevano normalmente una durata di trenta anni (più altri venti, al massimo, di proroga). E questo ogni società petrolifera lo sapeva al momento del rilascio della concessione. Oggi, di fatto, non è più così: se una società petrolifera ha ottenuto una concessione nel 1996 può – in virtù di quella norma – estrarre fino a quando lo desideri. Se, invece, al referendum vincerà il «Sì», la società petrolifera che ha ottenuto una concessione nel 1996 potrà estrarre per dieci anni, ancora e basta, e cioè fino al 2026. Dopodiché quello specifico tratto di mare interessato dall’estrazione sarà libero per sempre.
L’Italia dipende fortemente dalle importazioni di petrolio e gas dall’estero. Non sarebbe, quindi, opportuno investire nella ricerca degli idrocarburi ed incrementarne l’estrazione?
Gli idrocarburi presenti in Italia appartengono al patrimonio dello Stato, ma questo dà in concessione a società private – per lo più straniere – la possibilità di sfruttare i giacimenti esistenti. Ciò significa che le multinazionali divengono proprietarie di ciò che viene estratto e possono disporne come meglio credano. Allo Stato esse sono tenute a versare solo un importo corrispondente al 7% del valore della quantità di petrolio estratto o al 10% del valore della quantità di gas estratto. Non tutta la quantità di petrolio e gas estratto è però soggetta a royalties. Le società petrolifere, infatti, non versano niente per le prime 50.000 tonnellate di petrolio e per i primi 80 milioni di metri cubi di gas tirati fuori ogni anno e godono di un sistema di agevolazioni e incentivi fiscali tra i più favorevoli al mondo. Nell’ultimo anno dalle royalties provenienti da tutti gli idrocarburi estratti sono arrivati nelle casse pubbliche solo 340 milioni di euro.
Il rilancio delle attività petrolifere non costituisce un’occasione di crescita per l’Italia?
Considerando tutto il petrolio presente sotto il mare italiano, questo sarebbe appena sufficiente a coprire il fabbisogno nazionale di greggio per 7 settimane. Le riserve di gas per appena 6 mesi.
Cosa ci si attende?
Il voto referendario è uno dei pochi strumenti di democrazia diretta a disposizione degli italiani ed è giusto che i cittadini abbiano la possibilità di esprimersi anche sul futuro energetico del nostro Paese. Nel dicembre del 2015 l’Italia ha partecipato alla Conferenza Onu sui cambiamenti climatici tenutasi a Parigi, impegnandosi, assieme ad altri 194 Paesi, a contenere il riscaldamento globale entro 1,5 gradi centigradi e a seguire la strada della decarbonizzazione. Fermare le trivellazioni in mare è in linea con gli impegni presi a Parigi e contribuirà al raggiungimento di quell’obiettivo.
fonte: Il manifesto, 17 marzo 2016
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