Ricordo di Raffaello Renzacci 1956-2003 di Diego Giachetti

Dieci anni senza Raffaello


Esattamente dieci anni fa, il 19 novembre 2003, moriva Raffaello Renzacci, operaio Fiat, militante del PRC, e già prima di Democrazia proletaria e della Lega comunista rivoluzionaria, dirigente della Cgil di Torino e di quella che era allora la sinistra sindacale. Per alcune/i di noi quella morte, tanto improvvisa quanto lancinantemente dolorosa, costituì non solo la perdita di un amico e di un compagno ma anche la privazione di un punto di riferimento etico prima ancora che politico. Con l’articolo che segue Diego Giachetti ci aiuta a ricordarlo e a farlo conoscere a chi non ha avuto il privilegio di incontrarlo in vita.

Ricordo di Raffaello Renzacci 1956-2003
di Diego Giachetti

Per Raffaello l’inizio non fu facile. Giunse a Torino nel 1967 con la madre e il fratello quando aveva undici anni. Era nato il 5 luglio del 1956 a Massa Marittima in provincia di Grosseto. Si lasciava alle spalle un’infanzia non sempre felice.

Aveva frequentato con profitto le scuole elementari strappando un bellissimo giudizio del maestro che colse molte delle future attitudini del giovane scolaro: «E’ un ragazzino serio, calmo, di fantasiosa intelligenza. E’ un acuto osservatore e si interessa di tutto. E’ un buon disegnatore, abile in lavoretti di ogni genere. E’ un profondo ricercatore di cose e notizie e lettore accanito di libri ed enciclopedie».
Torino gli apparve “grande” e “piena”. Una città industriale in via di espansione urbanistica, abitata da una “moltitudine” nuova e varia, costellata di fabbriche. L’ordine sabaudo industrial-tayloristico che la governava stava per essere infranto dalla pressione disordinata di una immigrazione di massa che aveva stravolto le periferie e i centri storici cittadini e dai primi sintomi di una ripresa della lotta operaia.
Alla ricerca del suo posto nella società

Minuto e timido frequentando la scuola media trovò amici e con loro cominciò a esplorare la città.
Quando iniziò la terza media, era l’ottobre del 1969, si era nel pieno delle lotte contrattuali passate alla storia come “l’autunno caldo”. Si iscrisse all’Istituto Tecnico per Arti Grafiche e Fotografiche e qui cominciò a partecipare alle assemblee e alle agitazione studentesche.
Nel 1971, all’età di 15 anni, perse sua madre. Fu un duro colpo per l’equilibro già precario della famiglia.
Tramite la conoscenza di due studenti più “grandi” apprese dell’esistenza della Quarta Internazionale: si aprì un mondo nuovo e sconosciuto, da scoprire a cominciare dai Gruppi Comunisti Rivoluzionari, nome dell’allora sezione italiana, coi quali entrò in contatto attraverso il Collettivo Studenti Rivoluzionari che aveva iniziato a pubblicare nel novembre del 1973 un giornale ciclostilato intitolato “Soviet” per aprire un dibattito nel movimento degli studenti su tutto ciò che riguardava la scuola e la gioventù: dalla repressione familiare e sessuale, alla musica, all’uso degli stupefacenti, al Cile e al Medio Oriente.
Nel 1973 entrò nei GCR assieme ad altri giovani. La loro entrata rinvigorì il gruppo torinese e lo rinnovò nei contenuti, nella pratica militante e politica.
L’impegno politico divenne dominante e occupò tutta la giornata del giovane militante coinvolgendolo in una miriade di attività quotidiane: assemblee, riunioni del collettivo studentesco, distribuzione di volantini, cortei, riunioni in sede, diffusione del giornale «Bandiera Rossa».
Contemporaneamente iniziò anche a lavorare e a fare “lavoro di porta”, cioè l’attività di propaganda politica davanti alle porte d’entrata delle officine meccaniche della Fiat Mirafiori.
Da operaio a cassintegrato

Quando nel 1976 la Fiat riprese ad assumere, anche Raffaello entrò in fabbrica come operaio nel reparto finizione col mestiere di “levabolli”. I turni di lavoro rimodellarono il suo tempo di vita, tutto cambiò nelle abitudini.
Si iscrisse alla Federazione Lavoratori Metalmeccanici (FLM), il sindacato unitario dei metalmeccanici e alla Fiom quale sindacato confederale di categoria.
Quando il 9 ottobre del 1979, la direzione degli stabilimenti Fiat di Torino consegnò a 61 dipendenti le lettere di licenziamento, Raffaello non fu partecipe di quella vicenda perché era partito per svolgere il servizio militare in una caserma del Veneto. Lì non perse l’abitudine acquista a scuola e in fabbrica di organizzarsi con gli altri commilitoni per avanzare richieste migliorative della vita di caserma e del militare di leva.
Fu eletto rappresentante del COIR (Consiglio Intermedio di Rappresentanza), più volte partecipò alle riunioni del coordinamento nazionale, agli incontri con le gerarchie militari.
Ritornò a Torino nel 1980 mentre era in corso la parte finale della lotta dei 35 giorni alla Fiat (leggi la cronaca collettiva di quella lotta alla cui redazione Raffaello dette un contributo decisivo). Appena rimesso piede in fabbrica l’azienda gli diede il benservito aggiungendolo alla lista dei 23.000 sospesi.
Con altri compagni fu tra i fondatori del Coordinamento cassintegrati di cui divenne uno dei portavoce (vedi il racconto di quella esperienza fatto da Raffaello nel libro Cento… e uno anni di Fiat, Massari ed. 2000).
S’impegnò con altri nella ricerca di un rapporto con i disoccupati i quali, proprio in quel periodo avevano cominciato ad auto-organizzarsi per costruire un fronte di tutti i soggetti sociali ai quali era negato il diritto al lavoro sicuro. Rimase in cassa integrazione fino al 1987, poi fu messo a (non) lavorare in una delle UPA, le unità produttive accessoristiche costituite appositamente per gli invalidi ed i militanti sindacali, una sorta di “reparto confino” Nel frattempo si era intensificata la sua attività sindacale nella Fiom e nella Cgil. Pochi mesi dopo il suo rientro in Fiat Fausto Bertinotti gli chiese di entrare nella CGIL come funzionario.
Il sindacalista

Nei primi anni Novanta si prospettava una crisi delle organizzazioni sindacali confederali.
Secondo Raffaello sbagliava chi riteneva che il sindacalismo confederale fosse ormai diventato una sorta di guardiano o di gendarme che teneva prigioniera una classe di per sé antagonista e disposta alla lotta.
Pertanto la questione se fosse stato opportuno costituire un nuovo sindacato, non poteva essere risolta con scorciatoie organizzative, come riteneva di fare il sindacalismo alternativo.
La ricostruzione di un nuovo sindacato conflittuale doveva iniziare da un accumulo di forze e di strutture nei sindacati originari, perché nell’ambito della lotta sindacale risultava decisivo possedere una massa critica per imporre la propria contrattazione e non essere marginalizzati, quindi occorreva stare dove stavano i lavoratori, nei canali attraverso i quali passava la costruzione delle mobilitazioni di massa.
Dentro il sindacato riteneva possibile costruire una sinistra sindacale. Di qui il suo operare per costruirla attraverso la partecipazione alle varie vicende congressuali della Cgil con documenti alternativi. Democrazia consiliare, Essere sindacato, Alternativa sindacale e Lavoro e società-Cambiare rotta.
A Torino, nel frattempo, con altri compagni fu animatore dell’Associazione delle Lavoratrici e dei Lavoratori Torinesi. Per mentalità e formazione politica era abituato a ragionare e a impostare l’azione su un livello che andava oltre i confini nazionali.
In tal senso cominciò a muoversi quando venne a conoscenza dell’esperienza delle marce per il lavoro, francesi e spagnole, dei primi anni novanta, sfociate nelle marce europee e nella manifestazione di Amsterdam del 1997 e in quella di Colonia del 1999.
Nacque così AC! Agir ensemble contre le chomage!, composta da militanti dei settori sindacati, al fine di costruire un fronte vertenziale comune per la conquista di un lavoro stabile, dignitoso e adeguatamente retribuito per tutti i cittadini italiani e stranieri di entrambi i sessi. Così pure partecipò alla costruzione dei social forum del movimento dei movimenti, nell’intento di favorire il rapporto tra il vecchio movimento operaio e i nuovi movimenti.
In quanto sindacalista si confrontò con analisi critiche coi temi generali legati alle innovazioni che in quegli anni, con accordi sindacati-Confindustria e provvedimenti legislativi, si introducevano nella regolamentazione del mercato del lavoro. Erano tutti indizi di un piano razionale della borghesia e della classe dominante per imporre un rovesciamento a suo vantaggio nelle relazioni sociali, scrisse, una sorta di Seconda repubblica delle condizioni di lavoro e dello stato sociale, fondata sulla riduzione complessiva degli strumenti di tutela solidaristica, sulla ridefinizione dei rapporti sulla base della concorrenza fra individui, sulla mercificazione di tutte le funzioni sociali, in tal senso andavano la privatizzazione delle imprese e dei servizi pubblici.
Era il trionfo, l’apogeo, del mercato capitalistico. Il mercato era entrato come elemento determinante nella linea contrattuale dei sindacati. Da quel momento in poi avrebbero dovuto legare indissolubilmente «i propri destini agli affari del padrone: qualità totale, codeterminazione, democrazia industriale, premi di performance, lavoro notturno, flessibilità».
Le forme di lavoro precario erano soprattutto diffuse tra le nuove generazioni che si affacciavano al mondo del lavoro. Ciò comportava il rischio evidente e serio di un frattura insanabile tra diverse generazioni di lavoratori; inoltre, la condizione di precarietà rischiava «di avere un’influenza disastrosa sulla coscienza e sui valori culturali delle giovani generazioni, diventa un modello di esistenza e una visione del mondo.
E tutto ciò avveniva, commentava amaramente, ai tempi del primo governo Prodi «un governo che si è definito di centro sinistra». La sua battaglia contro la frantumazione del mondo del lavoro e dei diritti, volta a ricostruire un movimento dei lavoratori e un sindacato conflittuale e non concertativo, si combinava, sulla spinta della sua formazione culturale e politica, con analisi di più ampio respiro di carattere storico e teorico circa il rapporto esistente tra lavoro, tempo di lavoro, capitalismo.
Il tema s’intrecciava strettamente con quello della disoccupazione e della necessità di ridurre la settimana lavorativa a 35 ore. Era inaccettabile, scriveva in un corposo articolo intitolato In guerra per il temponel 1995, che a 13 anni dal 2000 una società che si diceva civile, con i livelli enormi di ricchezza e produttività raggiunti, non garantisse a chi era senza lavoro – e non per sua scelta- una fonte di reddito, un salario sociale.
In uno dei suoi ultimi scritti pubblicato sul quotidiano «Liberazione» dell’8 agosto 2003, sotto il titolo significativo: Legge 30, il lavoro geneticamente modificato, analizzava il decreto attuativo varato allora dal consiglio dei ministri del governo Berlusconi.
Lo definì un provvedimento che modificava “geneticamente” il lavoro con l’introduzione di 44 tipologie possibili di contratti i quali, assieme ad altre possibilità neo liberiste offerte alle imprese, rompevano l’unità contrattuale, toglievano i diritti ai lavoratori, scindevano la prestazione lavorativa dal rapporto di lavoro. Era la controriforma del complesso delle relazioni sociali del nostro paese.
L’uomo e il politico

Sul finire degli anni Ottanta la sua personalità e il suo carattere erano ormai definiti e costituivano il sottofondo del suo modo di fare e di agire. Curioso, apparentemente modesto, mai settario, cercò sempre il dialogo e il confronto con le varie componenti sindacali e politiche del movimento.
Lettore onnivoro e accanito, era interessato ad ogni genere, dai classici della letteratura alla fantascienza, dai saggi scientifici alle sacre scritture, dai testi di storia dell’arte al fantasy ai fumetti, oltre naturalmente ai testi politici, storici, economici e di indagine sociale. La musica lo interessava in un ampio spettro di generi, dal jazz, al rock, al blues, alla musica classica e leggera, all’opera.
Amava dipingere e aveva capacità pratiche e manuali notevoli, sapeva cucinare bene. Battaglia politica, sindacale e interessi culturali in senso lato si connettevano sempre tra loro dando luogo ad analisi compiute e articolate.
Sia in Democrazia proletaria, nella quale era confluito con La Lega comunista rivoluzionaria nel 1989, che in Rifondazione Comunista partecipò con ruolo visibile e trainante all’attività della locale Commissione lavoro, fu eletto nel Comitato politico federale provinciale del Prc e successivamente nel Comitato politico nazionale. Lavorò in questi organismi fino alla fine, con interventi interessanti e vivaci così come partecipò all’attività del Circolo del Prc a cui era iscritto, quello di Settimo Torinese che fu successivamente dedicato a lui. Condivise la scelta di entrare nel processo costitutivo di Rifondazione comunista per le potenzialità che esso conteneva e per le prospettive che poteva aprire.
Potenzialità e prospettive che si offrivano a patto di saper interagire in esso con proposte, battaglie politiche e culturali da condurre con altri a cominciare da contenuti e presupposti che era andato sviluppando, congiuntamente con l’area politica di provenienza di cui aveva fatto parte, e ai quali non intendeva rinunciare; tanto è vero che parallelamente all’entrata in Rifondazione, e agli impegni nuovi che tale scelta comportava, non rinunciò a contribuire alla discussione e alle decisioni che via via l’area dell’Associazione Quarta Internazionale andò sviluppando nel corso di quegli anni.
Di quell’esperienza, che non considerava affatto esaurita e a cui restò sempre legato, non aveva una concezione patrimoniale-conservativa. Non era solo un patrimonio da difendere, ma soprattutto da spendere per investirlo nei nuovi compiti che il contesto storico-politico poneva.
Possano le generazioni future…

Dopo l’attacco terroristico del settembre 2001 alle Twin Towers e l’inizio della guerra in Afghanistan e quelle successiva in Iraq, la sua azione s’indirizzò ad organizzare iniziative contro la guerra.
Nell’autunno del 2002 fu chiamato a ricoprire un incarico a Roma, presso il dipartimento Organizzazione della CGIL nazionale.
Passati pochi mesi però chiese di tornare a lavorare a Torino, per amore della sua compagna. Rientrato a Torino, dal marzo 2003 assunse un incarico nella segreteria della Camera del Lavoro dove seguiva i temi della contrattazione.
Poi l’aneurisma cerebrale che lo colpì mentre si trovava alla Camera del lavoro. Il “resistente”, come lo definì con affetto Salvatore Cannavò, per una settimana resistette all’aggressione del male, poi si arrese.
Quel giorno, quasi per un fatidico appuntamento col destino, indossava una maglietta con una frase presa dal testamento di Trotsky: «La vita è bella, possano le generazioni future liberarla da ogni male, oppressione e violenza e goderla in tutto il suo splendore» .

Tanti, tantissimi compagni e compagne gli resero omaggio, presso la camera ardente allestita alla Camera del lavoro di Torino, il giorno dei suoi funerali, il 22 novembre 2003.
Una straordinaria manifestazione di stima e di affetto nei suoi confronti per la quantità e per la varietà dei mondi che rappresentavano e che erano il risultato delle sue capacità di relazionarsi con situazioni diverse.

(per un approfondimento leggi Il resistente. Raffaello Renzacci, a cura di Diego Giachetti e Franco Ranghino, Roma Edizioni Alegre, 2012

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