Ricordo di Gian Giacomo Migone

Gianni Alasia in memoriam

Quando si infervorava a raccontare, Gianni passava al piemontese, anche se parlava a un immigrato. Con uno sguardo capiva che lo avevi perso, si fermava e traduceva, per poi riprendere sempre in piemontese.
Me ne ha raccontate molte, ma quelle che riferisco, a modo mio, a modo suo sarebbe meglio, a essere capaci. Quelle che riferisco, dicevo, vorrei non fossero dimenticate perché sono farina di cui è fatta la storia di una persona, di una militanza, di una cultura di governo (sissignori, proprio quella, spesso invocata da chi non ha la minima idea dove stia di casa) che non deve andare persa.
 
Cominciamo dalle fondamenta. C’erano una volta due gagni che attraversavano il ponte verso la Gran Madre; in senso sbagliato, perché avrebbero dovuto dirigersi verso Piazza Vittorio dove si celebrava il sabato fascista. Erano anche vestiti sbagliati perché gli mancava la divisa da balilla che non faceva parte del vestiario di casa loro. Incontrano il direttore della loro scuola elementare, grande e grosso, tutto vestito di nero, con in testa l’orbace completo di pulaster (parola di Gianni, mi risuona ancora nella testa). Li aggredisce, a parole ma li aggredisce, li minacciava anche, l’omone, e anche se sapevano il perché e il per come, i due gagni ebbero una gran paura.
Passano una decina d’anni. E’ il 25 aprile. Proprio in Piazza Vittorio c’è un raduno. Tra quelli che ascoltano c’è anche Gianni, con i compagni della sua Brigata Matteotti. Nella folla individua l’uomo non più in nero che li aveva aggrediti. Sta per rendergli la pariglia. Poi lo guarda meglio, ha le spalle curve, il vestito liso, l’aria spaventata. Lascia perdere.

Gianni sapeva anche essere prudente più dei capi. Non molto tempo prima, in piena occupazione tedesca, in un appartamento di una delle case a due piani delle vie di Borgo Po dove Gianni era di casa, non poi così lontane dalla famigerata caserma di Via Asti, si sono convocati alcuni partigiani delle brigate Matteotti per ascoltare Sandro Pertini. Anche Gianni era stato invitato, ma fu respinto alla porta dal compagno di guardia. Ligio alle regole, Gianni non insiste, scende per strada ma poi torna su. “Fai bene a non farmi entrare perché non so la parola d’ordine. Però avverti il compagno Sandro che tutti i passanti, anche tedeschi, sentono ogni parola che dice, se non abbassa la voce.”.

Passano altri anni, quasi una trentina. I sindacati sono all’apice della loro egemonia, soprattutto a Torino. Dopo le conquiste dell’Autunno caldo, il loro peso si sente, anche fuori dalla fabbrica. Gianni fa parte della segreteria della Camera del Lavoro, guidata da Emilio Pugno che con il suo omologo della Cisl, Cesare Delpiano, e Ferrari della Uil di conserva, per buona parte di Torino contavano più dell’Avvocato. In Cgil l’ortodossia era dettata dalla fabbrica, dall’organizzazione da modificare o contrastare con la rigidità della forza lavoro. Gianni condivideva tutto ciò, ma andava oltre. La vita degli operai non si esauriva in fabbrica. Erano preoccupati per le scuole dei loro figli, Invecchiavano, si ammalavano, dovevano fare i conti con gli uffici pubblici, volevano persino andare in vacanza. Dovevano anche mangiare, come non mancava di sottolineare Silvio Ortona, altro dirigente della Cgil,  che dialogava con i contadini, persino con la Col diretti e con persino la facoltà di agraria dell’Università, occupandosi di prezzi e di consumi (a Bra Carlin Petrini aveva imboccato la stessa pista). Alasia e Ortona trovavano interlocutori attenti tra noi della Cisl di allora (molto diversa da quella di ora, sia detto tra parentesi). Fu così che Gianni, con l’appoggio di Delpiano, decise di organizzare un convegno ovviamente unitario – unità e autonomia, non solo dai padroni, ma anche dai partiti erano parole d’ordine che trovavano ascolto sia in via Principe Amedeo che in via Barbaroux - sull’assistenza (ne sarebbe seguito uno sulla scuola). Una novità assoluta, di grande successo e con partecipazioni inedite e promettenti. “Ti ricordi tutte quelle suorine, com’erano preparate ed attente”, mi diceva Gianni con orgoglio, ancora una ventina d’anni più tardi.

Cose fatte insieme, lui da leader, noi studiosi di altre cose, da gregari.
Ma il più grande onore che ha fatto Gianni, nel corso delle nostre vite,
è stato quello di scontrarsi con me. Nel suo ordine d’idee,  discuteva con tutti, ma  si scontrava soltanto se la tua opinione aveva un’importanza per lui, personale o politica che fosse. Una volta, ad una celebrazione in via Dante Di Nanni, mi corse persino dietro per manifestarmi il suo sdegno per il mio avvallo alla guerra nel Kossovo.
“Te l’avevo detto che sarebbe finita in quel modo quando avete seguito Occhetto!”. Era quella la vecchia ferita che stentava a rimarginarsi, malgrado la presenza moderatrice di Pierina, o della comune amica Dora Marucco.
Abbiamo persino duellato insieme sulle colonne dell’ “Unità”, se essere o non essere comunista. Cosa abbastanza comica visto che non lo eravamo nè l’uno né l’altro, ma ciò non aveva importanza perché sapevo benissimo quale fosse il significato e la nobiltà che attribuiva al suo dirsi comunista.

In quei duelli al sole quanti erano i compagni e le compagne a nessuno passava per la testa che anche il più accanito antagonista potesse avere in mente altro se non il merito di ciò che stava dicendo. La parola “posizionamento” non esisteva in quel vocabolario. Gianni era un esempio estremo e, qualche volta mi è sembrato, persino esagerato – per il bene suo, intendo – di quella mentalità. Sarebbe stato meglio per lui ammettere che la sua mancata ricandidatura alla Camera costituiva un’oggettiva ingiustizia in un’epoca in cui le due legislature erano la prassi anche per coloro che non erano “one of the boys”  del Pci o dell’ex Pci delle Botteghe Oscure.
Non che glie ne importasse più di tanto, pronto com’era a usare la sua cultura di governo in sede regionale. A lui forse sarebbe importata un’altra cosa. La dico citando a memoria un articolo che scrisse Bimba De Maria per “L’Unità” in morte del suo compagno Aniello Coppola (altro mio maestro di vita e di politica). Aniello non aspirava a cariche e ad onori, scriveva Bimba. Gli sarebbe bastata una maggiore comprensione del senso profondo, del valore, di quello che andava facendo.

Sono convinto che di Gianni, di Aniello, anche oggi è piena l’Italia, è pieno il mondo. Forse è ora che facciano un passo avanti.

Gian Giacomo Migone


P.S. Dopo la morte di Pierina, Gianni ha imboccato la stessa strada. Non posso chiudere questo ricordo senza ringraziare, oltre che Lui, chi  - diversamente da me - gli è stato vicino, lo ha assistito,  anche in questo scorcio della sua bella vita.

Tesseramento 2023

 

  

 

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